Nei suoi occhi di ragazza Amin Mirkan guarda il
mondo con un sorriso. Ci piace pensare lo facesse anche verso quel mondo cupo
che si presenta bardato di nero fin sulle porte della sua Kobane, la cittadina
della resistenza. Sorride difendendo la propria gente cui era legata come ai
suoi figli. Per questo popolo lei sacrifica la vita alla maniera di certo
jihadismo più coraggioso degli infingardi dell’Isis e si fa esplodere.
Discorrere se il gesto estremo sia frutto d’un meticoloso piano militare o
d’uno stato di necessità che, pur nel martirio, le ha impedito di finire preda
sacrificale dei nemici suoi e della comunità kurda, ha poca importanza. Resta
il gesto in sé, una pratica che la leggenda e la storia hanno indicato ben prima
del costume attuato dal combattentismo religioso. Una pratica conflittuale, di
coraggio e autoimmolazione che più del simbolo indica la finalità. Un segno d’altruismo
estremo, nella sua dirompente fermezza da molti non compresa.
Una scelta che da sola intimorisce il nemico, al
di là delle perdite immediate procurategli; ne attacca il delirio d’onnipotenza,
l’arroganza con cui da mesi rivolge una violenza bruta contro soggetti inermi:
bambini, vecchi, minoranze etniche povere, pacifiche, disarmate. Ostaggi. Già
il sussulto dei peshmerga iracheni e dei guerriglieri della Rojava ha creato
problemi alla boria fondamentalista. La scarsità delle armi dei resistenti, il
limitato coordinamento degli oppositori, l’aiuto tutto da verificare che gli eserciti
delle nazioni arabe e turca propensi a raccogliere la chiamata dell’Occidente,
hanno mostrato s’è finora rivelato un indice di debolezza di chi dice di voler
respingere il predicatore-sterminatore. Eppure le combattenti delle Unità di
difesa del popolo si distinguono per decisione e adesione a un progetto che
rappresenta un doppio sogno.
Serbare un territorio libero e autodeterminato
per la gente kurda. Un esempio rivoluzionario, multietnico, multiconfessionale
poco amato non solo dagli islamisti. E la possibilità di realizzarlo e viverlo
in una società e con un’esistenza in cui la parità di genere è il presupposto
centrale d’un nuovo mondo. Le combattenti kurde incutono timore ai jihadisti la
cui credenza militar-religiosa gli impedirebbe, se fossero esse a togliergli la
vita, di finire nel Paradiso dei martiri. Ma oltre a tale credo è la potenza
sociale, culturale, affettiva, psicologica, dirigente, militare e perché no
sessuale della donna - che da oggetto diventa soggetto - a straniare, pur su
posizioni diverse, fondamentalisti di religione, politica ed etica. Da Levante
a Ponente. Talmente potente e passionale è il modello che le centinaia di Arin
e Ceylan e la Rojava tutta, stanno offrendo. Non solamente agli uomini in nero.
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