Disquisire se la Nato del Terzo Millennio sia diversa da quelle del
secondo, concentrate entrambe in uno spazio temporale ridotto, il cinquantennio
che va dalla sua creazione (1949) alla caduta del Muro di Berlino (1989), pare
un esercizio accademico di forma più che di sostanza. La “terza Nato” scaturita
dal summit di Newport rievoca tutte le manìe originarie consolidate nei
decenni: l’attuazione dei piani di controllo e dominio statunitense con uso
strumentale e univoco degli alleati considerati, secondo il rango, propri
sodali (britannici e francesi) o meri esecutori (aggregati vecchi e nuovi). Il
nostro Paese è da sempre nella seconda schiera e viene ora chiamato con
Germania, Danimarca, Polonia, Turchia, Canada e Australia ad attrezzarsi per
attuare i nuovi piani della rilanciata “sicurezza globale” targata Pentagono.
Archiviato (ma non è detta l’ultima parola) il braccio di ferro con Putin
sull’Ucraina, questi piani vedono nel pericolo del Califfato del Levante il nemico
da battere.
Tralasciamo ciò che da tempo anche il più americanista fra gli occidentalisti sa: certo
jihadismo tattico è stato coccolato, foraggiato, addestrato per i suoi intrighi
dalla prima della classe fra le Intelligence mondiali. Si sono aggiunti
contributo di Servizi e petrodollari di alcuni alleati locali che, mirando alla
supremazia nel Medio Oriente, ne stuprano genti e futuro. Eppure riascoltare le
pianificazioni di Barack Obama, uno fra i più fallimentari presidenti
statunitensi, produce quantomeno sconforto. Ricucire con interventi armati il
tessuto socio-politico attualmente in mano al fondamentalismo jihadista dello
Stato Islamico può voler dire che altri spazi regionali proseguiranno a essere
terre di tutti e di nessuno. Sicuramente terre di chi ha le armi e la forza di
usarle e luoghi nei quali la gente comune deve subìre o fuggire. L’Afghanistan
l’insegna. Lì teoricamente i talebani furono sconfitti e scacciati da Kabul.
Dopo tredici anni d’occupazione quel Paese resta unito sulla carta, è
amministrato a macchia di leopardo dal sedicente governo (fra l’altro latitante
da cinque mesi e chissà per quanto tempo per la farsa elettorale), molte
province sono controllate da Signori della guerra che mostrano o celano i
propri gruppi armati. I Taliban sono presenti nell’area sud-est della Fata,
controllano l’economia sommersa in varie province, si dilettano nel non rendere
sicura neppure la capitale costellandola di attentati e infiltrano stabilmente
ciò che dovrebbe garantire la sicurezza dello Stato: l’Afghan National Security
Forces. Insomma la punta di lancia (accanto alla guerra ad Al Qaeda) del
progetto della lotta al terrorismo mondiale, nel quale si è giunti a spendere
fino a 36 miliardi di dollari l’anno per “aiuti umanitari”, a utilizzare oltre
100.000 militari sacrificandone un certo numero, a reiterare i così definiti
“danni collaterali” con cui si sono sterminati migliaia di civili, risulta
ampiamente spuntata.
Ciò nonostante viene riproposta, sia in quei luoghi: il ministro
della Difesa afghano Mohammadi partendo dal Galles ha annunciato che la Nato
riafferma il proprio supporto alle ANSF, con un impegno di spesa di 4,1
miliardi fino al 2017, altro che strategia del disarmo… Sia nel quadrante
siriano-iracheno dove l’Is imperversa da mesi. Ma quell’area, destabilizzata da
tre anni dalla guerra civile siriana per la quale Asad non è esente da colpe,
proprio un anno fa era oggetto delle minacce d’intervento aereo delle forze
Nato “suggerito” dall’ineffabile Obama, mentre il Dipartimento di Stato
minimizzava sulle infiltrazioni di jihadisti-occidentali attraverso il
territorio dell’alleato turco. E, come detto, non censurava minimamente la
vicinanza di taluni sceicchi sauditi al rafforzamento militante e militare dei
gruppi guerriglieri in azione su quei territori. Il caso iracheno è ancora più
evidente.
Dopo la tabula rasa voluta da Bush jr, lo scempio di vite umane e di
bellezze dell’antica Mesopotania, gli orrori di Abu Graib e Falluja, gli Usa
hanno vestito i panni diplomatici d’un temporeggiamento poco attento a segnali
sempre più allarmanti. Si lasciava consumare il disegno di governo
interconfessionale che lo sciita Al Maliki gestiva maldestramente e
settariamente. Ogni giorno un’auto bomba, a Baghdad e altrove, terrore diffuso
e condiviso. Un caos che gli strateghi del Pentagono pensavano di poter gestire
a distanza. Non è stato così. Perché il nemico in turbante ha avanzato la sua
proposta, guadagnando consensi pur nel terrore. Sicuramente nell’adesione
popolare di certo sunnismo iracheno e siriano c’è il timore che le lame
giungano anche sulle proprie gole, la disperazione di non sapere a quale
autorità votarsi, e il voler riscattare condizioni di miseria ed espropriazione
del proprio status soggettivo e collettivo.
Ma c’è anche l’ostracismo ricevuto da quell’islamismo
moderato affacciatosi su taluni scenari. Mentre, ad esempio, s’accusavano i
Fratelli Musulmani di applicazione della Shari’a questa è comparsa davvero in
forme peraltro già note. Gli alleati turco e saudita, che gli Usa tuttora
cercano per ben posizionare la propria Nato, continuano a speculare sul Medio
Oriente per rafforzare la loro egemonia. Non sono le uniche potenze regionali,
ma certamente quelle che scherzano col fuoco della guerra fra religioni. E nel
Risiko globale il gioco delle parti d’inimicizie trasformate in alleanze di
comodo può riemergere nella veste di Salvatore chi era additato come Grande
Satana. E’ il caso di Teheran riguardato con interesse da Washington. La Storia
e la storia politica insegnano ricorsi e giri di walzer, ma degli scempi
dell’imperialismo occidentale dal trattato di Sykes-Picot in poi resta una
costante: riproporre il proprio dominio. Dal Secondo Dopoguerra servendosi
della Nato, e si prosegue.
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