Il panorama istituzionale afghano che -
verifiche delle schede a parte - viaggia verso la creazione d’un “governo
d’unità nazionale” coi contendenti Abdullah e Ghani uniti nel cogestire il
piano preparato da Washington, potrebbe trovare qualche ostacolo. Una delle
sorprese politiche che prende corpo è l’allargamento del fronte di Unità
nazionale anti americano contro le basi militari. Una sedicente Jirga della
pace sorta per iniziativa di Shah Ahmadzai, ex primo ministro del mujaheddin
Rabbani, l’eminente esponente dell’Alleanza del Nord che finì i suoi giorni in
un attentato, s’oppone all’occupazione perenne del Paese da parte delle truppe
Nato. Nel mirino c’è il Bilateral
Security Agreement, l’accordo creato nel momento di rapporti ancora buoni
fra Karzai e Obama, che prevede la continuazione della presenza militare
statunitense in molte province afghane, soprattutto attorno alle basi aeree,
per un controllo strategico sul versante militare e su quello economico. L’ex
presidente s’è poi sfilato dalla promessa di apporre la firma definitiva al
patto e nel novembre scorso ha passato la palla alla Wolesi Jirga (la Camera
bassa). Oggi i due pretendenti alla carica di Capo dello Stato si mostrano disponibili
a firmare e John Kerry è felice.
A rompergli le uova nel paniere restano gruppi
democratici da sempre all’opposizione, impegnati nel sostegno alla popolazione
e nella denuncia dei crimini esterni e interni (la Revolucionary Association
Women of Afghanistan e il Partito della Solidarietà). E da qualche tempo un variegato
e potente fronte islamico. Un’area che raccoglie il fondamentalismo dell’Hezb-e
Islami, con gli immarcescibili signori della guerra e degli affari Hekmatyar e
Sayyaf (quest’ultimo con uno sfrenato doppiogiochismo si dichiara pure alleato di
Abdullah), il pan islamico Hezb ul-Tahrir, il nuovo partito islamista afghano
Harakat-e Islami, sino a includere qualche chierico sciita come Sayed Hadi Hadi.
Tutti molto attivi nell’organizzare incontri e manifestazioni con la
popolazione, non solo davanti alle moschee ma guidando proteste contro
l’occupazione Usa e su questioni di politica estera: la repressione della
Fratellanza Musulmana in Egitto e, durante l’estate, l’ennesimo attacco
israeliano a Gaza e la questione palestinese. Proprio Ahmadzai ha lanciato la
proposta della necessità dell’apertura di un’ambasciata palestinese a Kabul. In
tal modo questa componente islamica nell’ormai lunga fase di vuoto di potere,
cerca di togliere terreno di reclutamento ai talebani interni.
Sebbene già dal 2010 vari politici locali, dal
presidente Karzai a Hekmatyar, avessero avuto contatti con la galassia talebana
per comprenderne gli obiettivi e valutare accordi. Gli stessi uomini della Cia presero
in esame l’ipotesi di passare dallo scontro ai negoziati, tornando sui propri
passi e considerando un inserimento di “talebani buoni” nella futura guida d’un
Paese comunque plasmato a proprio piacimento. Poi la Shura di Quetta si tirò
indietro e l’ipotesi cadde. I taliban afghani, pur sempre riottosi e ribelli,
sono decisamente più malleabili dalle altre branche dell’organizzazione. La
Rete di Haqqani s’è dimostrata insensibile alle aperture parlamentari e
governative, mentre per i talebani punjabi e quelli dell’organizzazione
Tehereek-e-Nafaz-e-Shariat-e-Mohammadi, che ben oltre le Aree tribali di
amministrazione federale (Fata) puntano alla ricomposizione del cosiddetto
Pashtunistan (un ampio territorio abitato dall’etnìa pashtun di varie province
afghane e pakistane) l’intento si rivolge a una scomposizione dei due stati
nazionali. E qui la repressione di Isi e dell’esercito pakistano, oltre che dei
droni statunitensi, si fanno sentire con veemenza pari alla destabilizzazione
introdotta dalla guerriglia. Insomma l’incertissimo futuro del Medio Oriente
comprende, e non da oggi, anche territorio e popolo afghano.
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