Nonostante accordi e aggiustamenti fra le parti
i clan di Abdullah e Ghani (e tutta la
pletora degli alleati con turbante e senza ma certamente con le armi) assieme
alla Commissione Elettorale Indipendente, benedetta da Nazioni Unite e da Kerry,
continuano a patteggiare il difficilmente patteggiabile: la divisione delle
poltrone. Un potere che dovrebbe seguire la comparsata delle verifiche d’un
numero imprecisato di urne elettorali. Le ultime cifre ne indicano 14.516,
magari fra qualche giorno quel riferimento aumenterà di nuovo. Si va avanti in
tal modo da fine giugno e in condizioni normali si potrebbe pensare a un ‘work
in progress’, non è così. Quello che procede a Kabul è un negoziato che ai
sorrisi e alle strette di mano dei due politici intenti a decidere come
spartirsi la guida della Repubblica Islamica e dividere la torta degli aiuti
internazionali (compresi quelli della cooperazione che spesso prendono le vie
dei locali ministeri), contrappone le tensioni dei loro sostenitori. Non solo
fra gli attivisti di strada, ma fra gli incravattati funzionari che constatano
come i voti sui database non corrispondono affatto a ciò che compare sulle
schede rivisitate.
Un peccato comune a entrambi i candidati, perché
le presidenziali andate in scena di falso hanno l’intero meccanismo, basato su
brogli e voto di scambio. Martedì scorso qualche parola di troppo fra gli
schieramenti ha prodotto una mega rissa all’interno della sede della
commissione, non sono spuntati i kalashnikov ma coltelli e forbici sì, e con
essi diversi addetti si sono bucati le carni finendo in sei all’ospedale. Se
tale è il clima nella struttura che ha giurato di risolvere il busillis dei
voti fuori posto, non meraviglia che il Paese risenta da mesi d’una tensione
elevatissima. Sia nelle province dove i
talebani continuano a mietere vittime (ultimamente cinque poliziotti a Helmand),
sia dove loro stessi cadono nelle retate delle Forze della Sicurezza Nazionale
Afghana (come a Shar-e Safa). La capitale prosegue a essere nel mirino dei
gruppi talebani interni e della sempre attiva Rete di Haqqani, lo dimostrano
gli agguati e le infiltrazioni nelle file dell’ANF. Cresce l’allarme sicurezza
nelle strade con furti di materiale in pieno giorno, mentre gli attivisti
umanitari occidentali sono in allerta per possibili rapimenti a scopo
d’estorsione.
Cresce la criticità anche per le forze
democratiche del Paese, il Partito della Solidarietà ne è bersaglio. Dopo il
capillare dibattito interno dei mesi scorsi Hambastagi puntava alla
partecipazione alle prossime elezioni politiche, promesse dai contendenti alla
presidenza. Però il congresso, che si doveva tenere il 5 agosto e che avrebbe
ufficializzato la scelta, è stato sospeso per i gravissimi episodi accaduti
nelle settimane scorse. L’uccisione d’un giovane membro del partito di nome
Safa, di suo padre Agha e le ripetute minacce rivolte a un altro noto militante, momentaneamente
riparato fuori da Kabul, hanno fermato l’assise. Se il clima peggiorerà lo
spettro della clandestinità, che i democratici di Hambastagi vogliono evitare,
potrebbe diventare un crudo bisogno. Nonostante le difficoltà si protesta
ancora alla luce del sole, come mostrano le foto d’un meeting contro i
criminali di guerra lanciato dal Saajs. Fra i sospettati della duplice
esecuzione alcuni soggetti vicini ai Warlords dell’Alleanza del Nord, la
sempiterna congregazione che ha oggi nell’inossidabile Abdul Sayyaf l’elemento
di spicco, propenso come Helal a collaborare con Hekmatyar. Un trio
fondamentalista che, vent’anni dopo i sanguinosi anni di guerra civile di cui
fu attore, rinnova la sua inquietante presenza, mentre veglia sulla mossa della
bi-presidenza.
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