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giovedì 26 giugno 2014

Erdoğan corteggia i kurdi per il suo presidenzialismo


La Turchia delle mille ambizioni e dei mille e cento problemi non vive ancora la fibrillazione delle presidenziali, previste il 10 agosto con eventuale ballottaggio il 24, vede comunque  avvicinarsi le scadenze di quell’appuntamento denso di significati. Dal 29 giugno al 3 luglio sarà aperta la registrazione dei candidati; quella scontatissima del premier uscente Erdoğan verrà anticipata da un meeting che l’Akp terrà martedì 1° luglio con la presenza di propri ministri dell’Esecutivo, esperti in diritto, membri della direzione del partito e delegati locali. Finora l’unico candidato ufficioso, e presto anch’egli ufficiale, è l’accademico, diplomatico e già capo dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica Ekmeleddin İhsanoğlu, presentato dieci giorni fa dai principali gruppi d’opposizione: i repubblicani del Chp e i nazionalisti del Mhp. Il partito filo kurdo della Pace e della Democrazia è in surplace sull’ipotesi di proporre o meno un suo uomo alla corsa per la prestigiosa carica. Lo staff erdoğaniano spererebbe di no e in questa fase ha lanciato pressanti avances verso questa e altre componenti (Great Union Party e Saadet Partisi) con l’esplicito intento di raccoglierne i voti.

Non solo riguardo a un’elezione al primo turno che eviterebbe le insidie d’un ballottaggio politicizzatissimo, ma soprattutto per ricavarne il sostegno – ovviamente patteggiato finanche a punti e virgole – per un accordo sull’annosa questione kurda. Nel merito il programma del governo già prevede all’inizio del mese di luglio l’avvio d’un dibattito parlamentare teso ad attenuare le misure repressive verso il Partito dei lavoratori kurdi, attualmente fuorilegge, che coinvolge soprattutto i giovanissimi militanti spesso responsabili di scontri e i detenuti politici malati. Il dialogo è aperto con Bdp e Hdp, quest’ultimo ha avanzato la richiesta federalista, ma essa non sembra inclusa nel pacchetto in discussione e ciò crea un bell’ostacolo. L’approccio governativo trova la ferma opposizione del kemalismo più oltranzista dei nazionalisti e di quello di sponda repubblicana, coralmente uniti nel rifiuto di qualsiasi colloquio con esponenti come il leader detenuto Öcalan (con cui gli incontri vanno avanti da due anni) e altri rappresentanti del Pkk tacciati di terrorismo.

Idee che girano anche fra un certo conservatorismo islamico, che però vedono il premier impegnato in un pragmatico realismo per ottenere l’appoggio necessario a una trasformazione dello Stato in Repubblica presidenziale. Un via libera che mai giungerà da Bahçeli e Kılıçdaroğlu. Perciò i consiglieri del sultano, temendo che la conferma delle amministrative del marzo scorso con oltre il 43% delle preferenze possa non bastare a raggiungere l’obiettivo da lui inseguìto da tempo, insistono nel formalizzare l’accordo. Il problema è cosa e quanto concedere alle richieste kurde senza perdere il consenso identitario dell’elettorato islamico. Erdoğan sta anche provando ad aumentare le personali percentuali fra i turchi d’Europa che voteranno all’estero. Ha compiuto viaggi e incontri pubblici in Germania, Austria e Francia, ma non venendo meno allo stile e all’indole ha inevitabilmente sollevato polemiche quando negli interventi ha criticato i Paesi che l’ospitavano (e dove vivono i propri concittadini) sulla politica estera della Ue riguardo alle vicende siriane o egiziane. Così le sue recenti apparizioni europee hanno polarizzato le piazze proprio come nelle metropoli di casa. 

martedì 24 giugno 2014

Voto afghano, prosegue lo show dell’imbroglio


Lo show delle presidenziali deve proseguire. Perciò l’intoppo dell’intercettazione telefonica (sì, anche lì) per quanto di parte e realizzata dallo staff di Abdullah nei confronti del segretario della Commissione Elettorale Indipendente incastra mister Zia-ul-Haq Amarkhail. All’improvvido funzionario, pizzicato in un confidenziale colloquio con cui tranquillizzava alcuni sostenitori di Ghani su un’operazione non proprio trasparente riguardante un trasporto di urne di schede votate (è in questo modo che possono essere facilmente sostituite), è stato consigliato di farsi da parte. Lui obbedisce, reclamando una candida innocenza. Di fatto il coinvolgimento in operazioni non chiare a favore d’un candidato gettano ombre sul protagonista della vicenda, sulla Commissione tutta e su entrambi i contendenti. Ad aprile era stato Ghani a gridare al raggiro. Ora potrebbe aver fatto di necessità virtù, cercando la via breve per quelle truffe che subodorava ai suoi danni e che avrebbe bypassato cambiando ruolo. Ma in fatto di brogli il confronto fra gli aspiranti alla presidenza appare uno scontro di Titani. Ciascuno è pronto ad accusare manchevolezze, non certo a praticare comportamenti virtuosi; non è un caso che i clan contrapposti abbiano rimorchiato o si siano affratellati con la crema del crimine afghano: Sherzai, Sayyaf, Hekmatyar, Mohaqqeq, Helal, Dostum.

Le elezioni, soprattutto se dipinte come un reale confronto democratico, sono la perfetta maschera dietro la quale nascondere una rioccupazione del potere locale tramite un presidente fantoccio disposto ad accondiscendere i voleri occidentali o di altri padrini. Questi sul versante economico possono essere i cinesi, su quello geostrategico locale pakistani e iraniani. Dietro la recita elettorale sono tuttora in corso accordi che produrranno, chiunque risulterà vincitore, interessi per vari attori internazionali e locali fino ai gruppi minori che praticano i propri affari appoggiandosi ai Signori della guerra. In tal senso c’è da pensare che lo stesso allarme lanciato da Abdullah non sia nient’altro che un riflesso condizionato da comportamenti diffusi e reiterati di cui ogni componente diventa, secondo il caso, usurpatore o vittima. Il bisogno di ristabilire l’equilibrio attraverso l’allontanamento di Amarkhail dal ruolo di supervisore della macchina elettorale assume i contorni del doppismo proprio leggendo le valutazioni d’un organismo delle Nazioni Unite, l’United Nation Asssistence Mission in Afghanistan, che in certi casi lavora con serietà denunciando storture. L’Unama ritiene “la direzione del capo della segreteria elettorale capace e anche più avanzata di quanto previsto”. Eppure il reprobo viene dismesso nella speranza che la farsa sia più credibile.

Abdullah è soddisfatto e afferma che il processo elettorale sta rientrando sui giusti binari, Ghani tace e probabilmente acconsente. Vincerà il migliore. Nell’imbrogliare, s’intende. 

domenica 22 giugno 2014

Sisi manìa: la carezza in un pugno


L’uno-due con cui magistratura e potere politico, le due lobbies fortissime d’Egitto, liberano un giornalista (e forse qualche suo collega nel prossimo futuro) ma ribadiscono le condanne a morte per gli odiati Fratelli Musulmani, con in testa il predicatore simbolo Mohammed Badie, sono assolutamente conseguenziali. Nessuna contraddizione fra il paternalismo e la fermezza, autoritari entrambi. Le prove del nuovo Egitto devono ovviamente fare i conti col contesto internazionale e l’odierno viaggio del Segretario di Stato statunitense Kerry ha questa funzione. Viene a ribadire, col presunto basso profilo che Washington ha assunto verso l’alleato sin dalla caduta di Mubarak, una volontà stabilizzatrice accordandosi e decidendo soluzioni aperte senza esporsi. Non è un caso che tante scelte d’Oltreoceano siano state delegate alla monarchia Saud, il cui sovrano Abdullah ha preceduto Kerry nell’incontro-investitura col suo pupillo della restaurazione securitaria in atto al Cairo. Dopo tre anni di morte e tensione altissima l’Egitto delle Forze Armate, ora acclamate dalla gente, appare come una riconquista della laicità filo imperialista nella regione. Lo è, ma la parte schiacciata, incarcerata, umiliata del Paese dev’essere tuttora esorcizzata con paure ancora maggiori: il pericolo di esecuzione a freddo, per sentenza giudiziaria, che s’aggiunge alla fucilazione nelle piazze ribelli.

Formula antichissima quella della carezza e del pugno con cui guidare un ambiente molto tradizionalista anche nella casa dell’alternativa che ha fallito - l’Islam politico - che comunque per milioni di egiziani resta simbolo d’identità e speranza d’emancipazione. Per superare il cortocircuito in un Paese che permane polarizzato, lo si dice da tre anni, bisogna mettere mano a problemi reali: rilanciare l’economia e porre pur parziale rimedio a una disoccupazione cronica, questioni rimaste finora bloccate dall’instabilità.  L’altro nodo scorsoio da sciogliere è combattere la corruzione che s’annida in troppi gangli della società e da cui non sono esenti poteri eccellenti come quello militare. Anzi questi poteri sono veri pilastri dell’anormalità del sistema, in base al quale l’Egitto si colloca in 114^ posizione fra le nazioni più corrotte del globo, con l’aggiunta di burocrazia e amministrazione altamente inefficienti. Basterà a Sisi aver dismesso la divisa per intraprendere un percorso etico e sociale di così rivoluzionaria portata? Nessuno ci crede. L’uomo è legato all’ambiente che l’ha promosso e sostenuto: i conservatori di casta militare, tycoon dell’affarismo locale e grand commis vicini agli interessi di apparati internazionali. In più dovrà superare alcuni vincoli che l’ultima Costituzione (del gennaio 2014) pongono al ruolo presidenziale. Primo fra tutti l’approvazione parlamentare per l’incarico ai ministri e premier che limitano la capacità d’azione del Capo di Stato.

Un’interessante questione istituzionale con cui può (ma per le vicende egiziane bisogna continuare a usare il condizionale) dunque potrebbe misurarsi è la funzione del grande assente delle vicende politiche interne: il Parlamento. Esautorato due anni fa da Alte Corti e da successivi istinti golpisti, oltre che dai desideri di cercare un uomo solo al comando. Così mentre ventitrè milioni di connazionali l’hanno elevato a simbolo salvifico della propria terra, il generale che “si sacrifica per loro” potrà sentire il suo potere limitato da un’Assemblea del Popolo costituzionalmente in grado di vigilarne e limitarne personalismi. Ma le due Camere sciolte d’autorità rappresentano tuttora il fantasma della politica nazionale. E gli stessi partiti che hanno sostenuto l’avanzata di Sisi, già nel 2013 attraverso il Fronte di Salvezza Nazionale, temono un rientro in gioco dell’islamismo celato sotto forme e volti sconosciuti, però presenti nel Paese reale. Per questo demonizzazione e condanna dei militanti noti e delle figure carismatiche della Confraternita devono perdurare. Mentre la normalizzazione che reitera schemi oggettivamente imparagonabili, perché Sisi non è neanche lontanamente Nasser e soprattutto perché quell’Egitto e quel Medio Oriente hanno lasciato il posto ad altri intrecci, cerca comunque suoi equilibri. Il modello è di recente confezione, per conservarlo si rilanciano bastone e carota. Poi si vedrà.

mercoledì 18 giugno 2014

Egitto, liberato il giornalista Elshamy


Trecentosette giorni senza il microfono del racconto e della denuncia, quello che gli era costato la galera per i servizi su Al Jazeera da cui Abdullah Elshamy raccontava il suo Paese, denunciando l’ultima grande strage dell’esercito d’Egitto davanti alla moschea di Rabaa, Cairo, il 14 e 15 agosto 2013. Dal giorno dell’arresto: isolamento, udienze in aula, repressione generalizzata di tanti cronisti, fra cui i dipendenti della tivù qatarina (Peter Greste, Baher Mohamed, Mohamed Fahmy) rei, a detta di magistratura e politica locali, di attentato alla sicurezza interna. Così a gennaio il paffuto Abdullah, che non ha addebiti specifici, inizia uno sciopero della fame protratto per settimane; fin quando, smaltito il surplus, si ritrova smagrito, con occhiaie profondissime a rischiare la salute. La libertà d’espressione, prim’ancora che quella di cittadino, sono beni preziosi che l’uomo persegue caparbiamente. 

Ora, sebbene famiglia lo vorrebbe tutto per sé, sostiene che non sparirà nel privato, né s’accontenterà della benevolenza d’un sistema che l’aveva trattenuto senza accuse. Promette di proseguire la battaglia di sostegno al lavoro d’informazione da tempo sottoposto a censura e persecuzione. La miliardaria emittente di Doha s’è sentita in dovere di estendere un pubblico ringraziamento al gran numero di supporter che per mesi hanno protestato contro l’arresto di Elshamy e dei suoi colleghi (tuttora reclusi in attesa della sentenza prevista per il prossimo 23 giugno). Un’ampia riconoscenza alle centinaia di giornalisti di altri Paesi che richiamavano il caso, creando una pressione sui poteri forti d’Egitto: militari e giudici. Alle migliaia di comunicatori tout-court come i blogger che nell’area mediorientale crescono nonostante la diffusione di fatto del reato d’opinione.   

lunedì 16 giugno 2014

Afghanistan, le scomuniche di Abdullah


Sentendosi già investito dell’incarico presidenziale a lungo occupato da Hamid Karzai, Abdullah Abdullah assume i toni del padrone di casa. Sa che a Washington l’accetteranno, come in realtà farebbero per il suo rivale Ghani perché chi fra loro prevarrà si porrà comunque al servizio dei voleri statunitensi. Abdullah si fa forte della marcia in più fornita dagli accordi con la maggioranza dei signori della guerra e degli affari, che con lui hanno stretto un patto d’interessi e sono pronti a sostenerlo a ogni costo, anche perché sanno che mai si rimangerà la parola data su scambi di favori per il business di ciascuno. Pena la correzione di quel tiro al piccione che, come monito pre-elettorale, una settimana fa aveva steso tre sue guardie del corpo e una manciata di passanti. Perfette esplosioni meditative. Appena concluse le operazioni di voto cosa estrae dal cappello il furbo Abdullah? La richiesta di bocciatura del capo della Commissione Elettorale Indipendente Zia-ul-Haq Amarkhail. Figura finora operativa, ma che all’avvio dello spoglio del voto presidenziale una sua personalissima sfiducia pubblica bolla come inaffidabile.

Cosa ha fatto Armarkhail per beccarsi l’ostracismo del favorito? Secondo le accuse lanciate in conferenza stampa dal “presidente in pectore” sarebbe uscito dal quartier generale della Commissione sul voto con un certo quantitativo di urne piene di schede che fanno sospettare una copiosa  frode. Questa non sarebbe la prima né l’ultima, ma come tutte le passate e presenti non è facile dimostrare poiché in quei luoghi ogni trasporto del materiale elettorale è tutt’altro che trasparente. Abdullah ha lanciato un monito preventivo: “Non accetteremo i dati di province in cui l’affluenza alle urne risulta più alta del numero degli elettori”. Logica lapalissiana che però in quel Paese va ribadita. Così il presidente della Commissione elettorale Nuristani ha garantito una profonda indagine sull’operato di Amarkhail su cui nella prima tornata di voto Abdullah non avanzava nessuna perplessità. Anzi, quando Ghani aveva paventato sospetti di brogli, l’avversario forte d’uno spoglio a lui favorevole lodava l’operato della Commissione. Come sempre gli opportunismi di fase non mancano.

Nell’attesa dei risultati finali le cui verifiche si dilatano sino ad agosto, e che le diatribe fra i contendenti potrebbero protrarre ulteriormente, cronici e inquietanti aspetti permangono nella vita d’ogni giorno. Quella che da decenni fa i conti con l’economia di guerra che distrugge e poi reintroduce risorse (la linea politica degli aiuti internazionali) e genera un’attività autoreferenziale. Legata, ad esempio, al piano di sicurezza in base al quale si gonfiano i numeri di esercito e polizia locali con reclutamenti di giovani che grazie alla divisa ricevono un salario, oppure si prestano all’ancora più rischiosa funzione di body-gard e contractor. Quindi la schiera d’interpreti e mediatori, procacciatori di contatti pubblici e privati, figure legate alla presenza stabile di occupanti e cooperanti che offrono “opportunità di lavoro” agli afghani. Un lavoro passivo e malato, dipendente dal latente stato di guerra. Su cui si gettano speculatori come gli affittuari di locali per il commercio che sperano nella presenza ad libitum di tutto il “carrozzone di guerra e pace” che fa guadagnare prevalentemente loro e il ceto burocratico, non incentivando attività primarie o rilanciando quelle realmente produttive. E’ la miserabile condizione di Stato assistito, garanzia assoluta per il potere e il vantaggio di pochi e l’oppressione sociale ed esistenziale della popolazione.