Trecentosette giorni
senza il microfono del racconto e della denuncia, quello che gli era costato la
galera per i servizi su Al Jazeera da
cui Abdullah Elshamy raccontava il suo Paese, denunciando l’ultima grande
strage dell’esercito d’Egitto davanti alla moschea di Rabaa, Cairo, il 14 e 15
agosto 2013. Dal giorno dell’arresto: isolamento, udienze in aula, repressione
generalizzata di tanti cronisti, fra cui i dipendenti della tivù qatarina (Peter
Greste, Baher Mohamed, Mohamed Fahmy) rei, a detta di magistratura e politica
locali, di attentato alla sicurezza interna. Così a gennaio il paffuto Abdullah,
che non ha addebiti specifici, inizia uno sciopero della fame protratto per
settimane; fin quando, smaltito il surplus, si ritrova smagrito, con occhiaie
profondissime a rischiare la salute. La libertà d’espressione, prim’ancora che
quella di cittadino, sono beni preziosi che l’uomo persegue caparbiamente.
Ora,
sebbene famiglia lo vorrebbe tutto per sé, sostiene che non sparirà nel
privato, né s’accontenterà della benevolenza d’un sistema che l’aveva trattenuto
senza accuse. Promette di proseguire la battaglia di sostegno al lavoro
d’informazione da tempo sottoposto a censura e persecuzione. La miliardaria
emittente di Doha s’è sentita in dovere di estendere un pubblico ringraziamento
al gran numero di supporter che per mesi hanno protestato contro l’arresto di
Elshamy e dei suoi colleghi (tuttora reclusi in attesa della sentenza prevista per il
prossimo 23 giugno). Un’ampia riconoscenza alle centinaia di giornalisti di
altri Paesi che richiamavano il caso, creando una pressione sui poteri forti d’Egitto:
militari e giudici. Alle migliaia di comunicatori tout-court come i blogger che
nell’area mediorientale crescono nonostante la diffusione di fatto del reato
d’opinione.
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