IL
CAIRO - Non solamente Fratelli, anche
compagni, amici, attivisti e supporter delle curve. Chi non è nelle galere
di Al-Sisi sta lontano dalle strade e quando ci va si mescola alla folla.
L’unica folla ammessa per via è quella vociante del commercio oppure in perenne
transito su auto private e bus collettivi e, in certi anfratti del centro e
nelle periferie, su carretti e cavalli. Riunirsi in strada anche a piccoli
gruppi è considerato reato, una messa in pericolo della sicurezza nazionale recita
il decreto dell’amato super ministro della difesa e presidente in pectore. Chi
lo fa rischia cinque anni di prigione e può finire ad Abu Zaabal o similia. Nei
mesi di protesta anti golpe di arresti ce ne sono stati a migliaia, soprattutto
fra i militanti delle quattro dita, ma pure fra i Tamarrod pentiti e fra i
ragazzi di Tahrir ormai ridotti al lumicino. Nella zona e dintorni c’è un
pullulare di uomini che hanno l’aspetto inconfondibile e globale del poliziotto
in borghese. Occhi che guardano attorno, fumando, fingendo di leggere
improbabili giornali o scrutando il panorama. Magari la paranoia cammina fra la
gente, ma chi è conosciuto, segnalato o ha nemici sull’altra sponda politica
usa la giusta cautela.
E’ il motivo per cui ora diventa
difficile incontrare agitatori della
Primavera o semplici partecipanti. Con l’aria che tira nessuno si fida e anche
i personali contatti con egiziani d’Italia già preannunciavano questo letargo
dei protestatari. Piccoli fuochi sono ancora accesi, l’altro ieri ad esempio
nella zona di Al-Nasr c’è stata l’apparizione, più simbolica che di effettiva
contestazione, di sparuti ragazzi di Rabaa. La normalizzazione è il desiderio
della maggioranza cairota, è quel che appare sui media, è una speranza che
vorrebbe conferme eppure vive nell’inquietudine. Di rivedere la sfilza di promesse
non mantenute, secondo quanto dichiarato dai rivoluzionari della prim’ora
riguardo a senso di giustizia, rilancio della dignità, lotta alla corruzione
che insieme a democrazia, libertà e cancellazione della povertà erano i punti
base della Rivoluzione del 25 gennaio. La Primavera incompiuta e tradita dalla
stessa Brotherhood che sui moti di piazza aveva costruito la sua campagna per
la presa del potere. Col mezzo democratico del voto, ma pur sempre con
l’intento di riscattare per sé gli ottant’anni di esclusione dalle stanze dei
bottoni.
Come loro altri apprendisti stregoni: il trio ElBaradei-Sabbahi-Moussa del Fronte di
Salvezza Nazionale, che ha lanciato la famosa raccolta di firme per sfiduciare
Mursi e le successive ciclopiche manifestazioni culminate con la
defenestrazione manu militari del presidente. Così talune riflessioni di noti
attivisti laici, colpiti dagli effetti della Sisimanìa, oggi giungono a un’amara
considerazione. Se quello della Fratellanza diventava un regime autoritario che
è stato giusto bloccare, la svolta del golpe di velluto - un velluto tinto di
rosso - è addirittura più inquietante. Perché soffoca la democrazia, si
sostituisce a essa, ripropone la rappresentanza drogata dell’era Mubarak come
dimostra il recente referendum costituzionale votato dal 38% dell’elettorato. Uno,
due, tre passi indietro se viene colpito il vero elemento rivoluzionario
rappresentato dalla partecipazione diretta, dal senso collettivo, dalla volontà
di offrire cultura al popolo. Era questo il fulcro del fitto parlare sotto le
tende di Tahrir nei giorni che precedettero la caduta del raìs. E nel ritorno
dell’autunno 2011 su quelle aiuole, ridiventate vivace agorà anziché grande
rotatoria della giostra di automobili rombanti in una città votata
all’individualismo.
E’ attorno a questo spirito che l’Egitto
si sta dividendo da tre anni. Laici e
islamisti è una ma non la più profonda chiave di lettura, seppure gli estremismi
di alcuni settori (feloul e fondamentalisti) hanno segnato col sangue delle
reciproche fucilate un tentativo di conflitto, anche armato, fra le parti. C’è
chi ha detto di lasciare ai professionisti del grilletto questa sfida, infatti
Servizi e qaedisti hanno ultimamente preso la scena. La ben più reale lotta che
s’intraprende in città e campagna avviene attorno a volere cambiare registro
sul sistema. Finora i ribelli di Tahrir, in gran parte laici ma anche Fratelli
come dimostra più d’un martire già in epoca Tantawi, hanno discusso di
sovrastruttura senza parlare di come scardinare uno Stato che continua a essere
retto da dollari e paura. Ai politici di professione di sponda liberale e
nasseriana, il capitale anche imperialista, piace. E piace a tanti imprenditori
islamisti legati agli affari, personali o marchiati dalla Confraternita. Preghiera
e impresa fanno il paio con le chiacchiere e il businness dell’altro versante
politico. In faccia a tutto: alla tradizione, alla cultura, al culto stesso.
Come fa una delle famiglie d’oro del Cairo che conta, importatrice unica dei
marchi Pepsi, Vodafone, Kia, Renault che decide di costruire un megastore di
fronte alla Moschea di Alì sulla collina della Cittadella. E magari ci riuscirà.
Mentre a Moqqattam si fa la fila per il pane, flash d’un Paese immutato neanche
regnasse ancora Faruq.
(fine)
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