Il blocco prima in entrata
poi in uscita che ha tenuto ferma al Cairo, al valico egiziano di Rafah quindi
a Gaza, una delegazione di attivisti italiani che portava solidarietà e aiuti
finanziari per le strutture sanitarie agli abitanti della Striscia unisce gli
antichi ostracismi verso quell’area all’aria che circola da mesi in Egitto.
Le chiusure a piacimento del martoriato territorio che gli eserciti israeliano
ed egiziano, sotto la supervisione del primo, hanno a lungo prodotto
rappresentano un’antica piaga. Un’illegalità profonda che ha fatto coniare la
triste definizione di “prigione a cielo aperto”. Una prigione accettata dalla
Comunità Internazionale come illegalità normalizzata. Fra una strage e l’altra
di civili, i valichi s’aprono per qualche immissione di materiale primario, ma
non tutto e sempre insufficiente, un perfido ‘stop and go’ imposto dai carcerieri
in divisa. L’emergenza sicurezza è un alibi che non regge e varrebbe
all’opposto: quale vita è più insicura di quella d’un gazousi? Da tempo siamo di fronte alla “giustificazione dell’umiliazione” oltreché del
danno anche estremo che segna la vita d’un milione e mezzo di palestinesi.
Il muro invisibile, ma assai
tangibile, rappresentato dall’impossibilità di varcare quel confine anche per
portare una parola, un sorriso, una carezza ai bambini e ai malati è un dejà vu
presente fra gli attivisti filo palestinesi, ricordo dell’epoca Mubarak e del recente
interregno militare di Tantawi. Altre delegazioni, anche internazionali, erano
state bloccate al Cairo. E così s’era verificato – c’era da stupirsi del
contrario – all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv nella primavera 2011. Il
messaggio, seppure non letale come quello di Mavi Marmara, diventava altrettanto
perentorio. Diceva: chiunque pratica il sostegno militante ai palestinesi è
“presenza non gradita”, viene espulso e se s’oppone arrestato. Il cordone
sanitario, l’apartheid scientifico sancito contro la gente della Striscia s’allarga
ai loro amici di qualsiasi continente; s’arricchisce del nuovo clima della
politica egiziana versione Al-Sisi. Teoria e prassi che riportano al peggior
volto del Mubarak dittatore-democratico e con lui ai metodi dei
presidenti-militari ammantati di populismo. Anch’essi poco amavano il confronto
con chi aveva progetti diversi dai propri.
Restando al presente la
caccia alle streghe rivolta all’Islam politico che ha tracimato colpendo molte
componenti libertarie di Tahrir (i cui leader e blogger sono detenuti al pari
dei Mursi e Al-Shater) soffoca anche i veri liberali e laici d’Egitto. Ovviamente
non i volponi della scena politica, creatori un anno fa del Fronte di Salvezza
Nazionale, che dalla raccolta di firme anti Mursi alle oceaniche adunate hanno spalancato la via alla restaurazione militare che fagocita qualsiasi libertà.
Dell’umiliazione e del successivo sterminio dell’avversario, s’è fatta
plaudente e garante tanta intellighenzia democratica sulle sponde del Nilo e delle redazioni occidentali. Secondo prammatiche real-politik partorite da ‘principesche’
menti strategiche. Così ora nella
capitale d’Egitto affiggere un manifesto sgradito ai guardiaspalle istituzionali
della lobby delle stellette porta dritto in galera. Riunirsi in dieci e peggio
in mille sotto uno striscione può produrre cinque anni di supercarcere per
attentato alla sicurezza nazionale. Opporsi alle forze dell’ordine può costare
l’incriminazione per terrorismo – che vale l’ergastolo o la pena capitale -
mica solo ai membri della Confraternita.
Una simile condanna l’odierno
Egitto democratico la estende a chi quest’idea la esterna graffittando o scrivendo
(il caso di Wael Ghonim insegna) sostengono alcuni colleghi locali. Certo non
quelli diventati cantori di Al-Sisi “garante della rivoluzione”, un refrain
sviolinato per mesi da certa sinistra egiziana e anche nostrana.
Nessun commento:
Posta un commento