Recentemente la senatrice afghana
Belquis Roshan ha innalzato un cartello di protesta nell’assemblea della Loya
Jirga e per questo è stata espulsa dalla sala. Il cartello faceva riferimento
al patto appena firmato da Karzai e Obama denominato “Bilateral security
agreement” (Bsa), che secondo la parlamentare dell’opposizione “svende ulteriormente l’Afghanistan”.
Cosa sia il Bsa è presto detto. Un accordo che garantisce agli Stati Uniti di
conservare e ampliare basi militari sul territorio afghano. Alcune sono
centrali note (Bagram a est, Shindand a ovest, Kandahar nel sud) più altre di
nuova costruzione. Queste strutture non si occupano affatto della sicurezza
afghana: lì non s’addestrano truppe locali né ci si prepara a combattere i
talebani. Sono e saranno basi logistiche dove una parte dei reparti americani
che rimarranno, nonostante il ritiro previsto per il 2014 (si calcolano
10-12.000 unità), organizzano possibili operazioni offensive condotte con
caccia pilotati e droni senza aviatore. Contro chi? Tutti e nessuno, intanto è garantita la presenza.
Agli “alleati” statunitensi preme
conservare nel cuore dell’Asia un controllo militare d’un territorio strategico
per gli equilibri mondiali. Rispetto ai presidi sul Golfo Arabico, quelli
afghani riescono a tutelare la strategia yankee verso le potenze russa, cinese
e pure indiana. Su tali acquartieramenti l’Afghanistan non potrà far pesare
nessuna sovranità, perciò la senatrice Roshan non è rimasta seduta passivamente
sullo scranno, obbediente e prostrata come la maggioranza dei parlamentari
presenti all’Assemblea degli anziani. S’è prodotta nella clamorosa protesta,
sottolineando l’ennesima saldo offerto a Washington. L’azione assume un valore
non solo simbolico, punta a smascherare la furbesca manovra del presidente
Karzai che per far ratificare l’accordo firmato ha riunito la Loya Jirga,
un’assemblea che non ha il potere legislativo dei due rami del Parlamento. Essa
non raccoglie solo i deputati ma figure tribali e claniste del panorama etnico
nazionale. La Loya Jirga è, comunque, funzionale al sistema delle tradizioni e
l’intento di Karzai è ottenere il benestare della grossa comunità pashtun, alla
quale appartiene e alla quale sono legati anche vari signori della guerra.
Il passo può servire nella
trattativa coi talebani, da cui il presidente si è ultimamente sfilato. I talib
hanno sempre chiesto un totale ritiro della presenza armata straniera dal
territorio afghano. Stessa cosa pensano e vogliono warlord che si chiamano
Hekmatyar e Sayyaf, molto vicini alle posizioni fondamentaliste dei turbanti.
Hamid Karzai sul tema della sicurezza nazionale si sta giocando un bel pezzo
della campagna elettorale del fratello Qayum. Che gli fa da prestanome per un
ruolo che lui non può ricoprire con un terzo mandato, ma che cerca di garantirsi
dietro le quinte, barattando con gli amati e odiati amici statunitensi. Karzai
agirebbe per interposta persona, appartenente ovviamente al clan familiare, uno
dei più potenti del Paese, ma nient’affatto l’unico. In queste settimane
vecchie boss locali misurano, smontano e ricompongono alleanze in funzione di
quella che sarà la nazione di domani. E oltre a un Abdullah, ex ministro degli
Esteri, già candidato alla presidenza nel 2009 che denunciò i brogli dell’uscente
Capo di Stato e che medita vendetta, ci sono vicepresidenti finora in affari
con Karzai (Fahim) pronti a voltargli le spalle. Oltre a nuovi volti di cui
parleremo.
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