Pagine

lunedì 27 ottobre 2025

Senza guerriglia molti affari

 


Fibrilla il Parlamento turco, e ancor più il governo, per la ritirata definitiva del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) che nella scorsa primavera ha chiuso il capitolo della lotta armata in Anatolia assieme ai fratelli delle Unità di protezione del Popolo (Ypg). Migrano tutti nel Kurdistan iracheno, fra i monti di Qandil, da decenni casa e casamatta della leadership kurda. Il Pkk ha decretato da maggio scorso il suo addio alle armi, anzi le ha pure simbolicamente bruciate in piena estate. Le Ypg le trasportano altrove, senza rivendicare l’autonomia della regione denominata Rojava. Un autogoverno da difendere con l’autogestione del territorio e della comunità e, quando occorreva, a colpi di mitra. Ma questo è il passato. Quella lotta era diventata impari, contro l’esercito di Ankara, e sullo scacchiere internazionale. Poiché fino a quando l’Isis agiva sul territorio siriano giungevano rifornimenti e armamenti statunitensi, poi è prevalso il graduale e inesorabile abbandono. Col mutare del quadro politico in Siria, il fronte anti Asad ha preso il potere e guarda a una transizione-trasformazione del territorio rimasto a lungo avamposto delle alleanze iraniane con Hezbollah libanese e Hamas palestinese. L’attuale Israele, che ha inferto duri colpi a entrambi, incarna la variabile impazzita col suo piano d’inglobare terre dei vicini. Non solo i palestinesi aggrediti con una peggiore Nakba che sa d’annientamento totale, ma a scapito appunto delle debolezze libanesi e siriane. Sostituendo Washington, Tel Aviv lancia l’amo del sostegno a senso unico verso i kurdi dell’ex Rojava, lusingandoli e illudendoli come sta facendo coi drusi. Appoggi, sovvenzioni, protezioni per usarne talune avversioni a proprio vantaggio. I leader del Pkk non si fanno irretire, però restano isolati in luoghi mai risultati centrali per lo stesso progetto dibattuto oltre quindici anni or sono da Erdoğan e Öcalan. In seguito congelato e di fatto reso praticabile in pochi mesi da chi aveva sempre avversato la grande minoranza kurda, il capo nazionalista Deviet Bahçeli, ora ferreo amico del presidente. 

 

Un accordo tattico per i due fronti. Utile all’Alleanza del popolo (Akp più Mhp) vincitrice delle elezioni nel 2018 e 2023, ma messa sotto pressione sui temi dell’economia, dell’autocrazia e della sicurezza dal Partito Repubblicano (Chp). Utile per il vicolo cieco in cui era finita la lotta armata, foriera solo di carcere e repressione a detta del medesimo leader storico Öcalan. Fra le sue richieste l’attuazione di quell’autonomia locale nelle aree del nord-est anatolico dove i rappresentanti kurdi sono eletti con ampie maggioranze ma subiscono commissariamenti, repressioni,  arresti. E l’altamente simbolico utilizzo della lingua kurda nelle stesse assemblee istituzionali come il Meclis. Proprio dello stallo di tali procedure s’è lamentato il portavoce kurdo nella conferenza stampa di ieri a Qandil, per tacere delle istanze di scarcerazione di reclusi eccellenti: Öcalan da ventisei anni, Demirtaş da quasi un decennio. I politici turchi plaudono convinti che tutto s’appianerà e guardano soprattutto i vantaggi dell’insperata pacificazione che risolleva la linea del ‘sultano’ tenuta a galla solo dal perpetuo suo moto diplomatico, ma che necessita d’un potenziamento sul claudicante fronte economico a lungo strapazzato da una straziante inflazione. Una piaga per la patria e i cittadini. Perciò politologi e analisti, ricordando le pazzesche ricadute finanziarie sulle casse interne (finora sono stati spesi 1,8 trilioni di dollari per la “lotta al terrorismo”), prospettano un futuro stabilizzato da progetti che potrebbero creare in tre anni più di 500.000 posti di lavoro. Evidentemente non indirizzati a reclutamenti dei Ministeri della Difesa e dell’Interno, come accadeva nella Turchia iper militarizzata degli esecutivi repubblicani ed erdoğaniani, bensì per agricoltura, turismo, servizi. E investimenti privati proprio nella depressa regione del nord-est. Quanto questa via sarà inclusiva e partecipativa per la gente kurda è la scommessa in atto. Al tempo stesso la pacificazione è la carta che lo Stato gioca a favore di due obiettivi al centro ai programmi di grandezza di Erdoğan. 

 

Quello di fare della Turchia un grande ‘hub energetico’ proiettato sui continenti europeo, asiatico e africano. Convogliando dai luoghi di estrazione: Paesi del Golfo e Libia fino al Caucaso e Mar Nero idrocarburi e gas, e fungendo da ponte di connessione e distribuzione. Chiusa la fase in cui i guerriglieri facevano saltare i condotti, il gasdotto transanatolico TANAP che trasporta 16 miliardi di metri cubi all'anno in Europa, TurkStream (31,5 miliardi di metri cubi nell'Europa sud-orientale), l'oleodotto BTC Baku–Tbilisi–Ceyhan fornitore di 1,2 milioni di barili al giorno,  sono esempi già esistenti in predicato di ulteriori implementazioni. Cui s’unisce il sogno sempre vivo di Mavi Vatan, la Patria blu. Cavallo di battaglia, pardon, vascello d’assalto della marina turca e del nazionalismo anatolico già all’epoca dei golpe militari, è tornata in auge fra gli ammiragli (dal suo ripropositore Cem Gürdeniz) con funzione di difesa delle cosiddette Zone Economiche Esclusive, tratti di mare di competenza delle nazioni prospicienti che nel Mediterraneo orientale vede penalizzata la costa anatolica per il ruolo giocato dalle isole greche e da Cipro. Al di là delle diatribe, comunque di non poco conto se si pensa alla gestione dei giacimenti di gas nello spazio di mare che interessano e coinvolgono Egitto, Gaza (l’unica diseredata e senza diritti) Israele, Libano, Cipro, Turchia e Grecia, Mavi Vatan su cui punta Ankara riguarda i traffici marittimi fra Mediterraneo, Oceano Indiano e Pacifico. Un affarone su cui dagli inizi del Millennio sta puntando la Cina per salvaguardare la sua linea commerciale diretta e per conto terzi nella ‘Via della seta’. Un impegno che per impotenza di capitali mercantili non coinvolge la Grecia e neppure un’Italia che ha svilito qualsiasi attività commerciale e infrastrutturale marittima ad ampio respiro. Per ora Middle Corridor (rotta commerciale dal sud-est asiatico e Cina attraverso Kazakistan, Mar Caspio, Georgia,  Turchia) funge già da affidabile ponte terrestre, ha trasportato 4,5 milioni di tonnellate di merci nel 2024 e alla fine di quest’anno supererà i 6 milioni. Dopo guerriglie interne striscianti e conflitti locali combattuti o mimati la Turchia senza terrorismo è pronta a cercare nuovi spazi di grandezza. Neo o post ottomani si vedrà.   

   


Nessun commento:

Posta un commento