Ne è passato di tempo - più di quarant’anni - quando un
tajiko nato a Bazarak e diventato eroe del Panshir metteva fuori uso i carri
T-62 nelle gole di quella valle durante tre battaglie comprese fra l’aprile e
il dicembre 1980. Era l’anno seguente l’invasione dell’Afghanistan da parte
dell’Armata Rossa, intervenuta a pacificare con le armi le sponde armate che
contrapponevano i leader ed ex alleati Taraki e Amin, artefici della cosiddetta
Rivoluzione di Saur. Ahmad Shah Massud -
il leone - era immortalato con suo pakol,
l’aria sognante, e pratiche di guerriglia riprese da quel comunismo internazionale
dei Mao Tze Dong, Guevara e Giap, delle loro lunghe marce, rivoluzioni
impossibili, resistenze ventennali. Un modello di guerriglia comunista
applicata contro le truppe ortodosse di Mosca dai mujaheddin islamici che
neppure le scorrerie aeree dei bombardieri Tu-16 riuscirono a piegare. A
ripiegare, dopo un decennio di perdite e umiliazioni, furono i soldati russi,
in un prodromo della crisi politica che archiviò definitivamente l’esperienza storica
bolscevica. Ma il tajiko, stratega e narciso, molto gloriato dalla stampa
occidentale, dopo quella ritirata e la cancellazione d’ogni ombra di Repubblica
Democratica Afghana, si ritrovò a guerreggiare contro altri capibastone etnici
(pashutun, hazara, uzbeki) tutti conosciuti come locali Signori della guerra. Furono
quattro anni (1992-96) di pseudo guerra civile diventati nient’altro che
massacri fra le proprie fazioni banditesche e a danno della popolazione
soprattutto di Kabul (80.000 morti), città contesa appunto da Massud e Rabbani
contro Hekmatyar, Sayyaf, Dostum, Khalili, Mazari; quindi “pacificata” dalla
discesa dei talebani del mullah Omar nella capitale.
Tajiki, ma non solo, sono gli aderenti della branca
afghana dell’Isis, detta Khorasan dall’antica regione persiana che s’estendeva
fino a gran parte dell’attuale territorio afghano, e di quelle che nel 1921
diventarono le Repubbliche Sovietiche, poi Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan.
La nascita dell’Isis-K è datata 2015, quando il Daesh siro-iracheno subiva
l’offensiva dell’alleanza kurdo-statunitense da una parte e dei mercenari russi
che difendevano il regime di Asad, combattendo contro altri mercenari jihadisti
provenienti dal Maghreb e dalla stessa Europa. Se ne è riempita la cronaca
nerissima della geopolitica mediorientale fino al 2019. E’ comunque il 2017
l’anno in cui, settimana dopo settimana, quando le truppe Nato parlavano da
tempo di smobilitazione e ritiro ma continuavano a sostenere il governo
fantoccio di Ghani, che taliban ortodossi della Shura di Quetta e dissidenti
afghano-pakistani che avevano assunto la sigla ISKP si misuravano a suon di bombe per dimostrarsi i più incisivi,
distruttivi, assassini verso la popolazione (soprattutto la minoranza sciita
hazara), i più capaci d’infiltrarsi e colpire ovunque ed essere padroni del
territorio. Rimasero famosi gli assalti ad alcune città, poste per giorni sotto
attacco non solo nelle basi della fantomatica Afghanistan National Army predisposta dagli americani, ma contro le
stesse Unity Forces della Nato. Solo
i bombardamenti a tappeto di quest’ultima e il successivo uso di droni
sbrogliavano situazione che gli stivali a terra dei militari occidentali non
riuscivano a risolvere militarmente. Perciò l’ingresso talebano nell’agosto
2021 nella capitale non fu certo una sorpresa. I turbanti ortodossi avevano,
momentaneamente, avuto la meglio sui dissidenti dell’ISKP, e gli oltre tre anni di trattive con gli uomini della Cia a
Doha, fecero il resto. L’Isis Khorasan, pur sostenuta da porzioni dei Tehreek-i Taliban pakistani ma non più
dal ribelle network Haqqani riavvicinatosi agli ortodossi, dal 2020 compì una
ritirata strategica oltreconfine, nei territori delle Fata. Lì ha atteso lo sviluppo
dell’orizzonte afghano riaffacciandosi con nuove operazioni nel 2022.
Attentati sparsi per il Medioriente, dalla Turchia all’Iran, e nuovamente
in Afghanistan naturalmente, dove l’orientamento talebano calibrato sul
nazionalismo del proprio Emirato, sunnita e pashtun, si scontra coi princìpi
del Califfato del Levante propugnati dai jihadisti del Khorasan. Gli stessi che
enunciava Al-Baghdadi nelle famose prediche prima della definitiva dipartita. Avvenuta
in una località siriana nell’ottobre del 2019, senza che sulla sua figura
carismatica, e dunque utile a tenere uniti fedeli e combattenti, calasse
quell’incertezza che per anni aveva accompagnato il fittizio mantenimento in
vita del mullah Omar, nel timore che i clan talebani afghani si disperdessero. Altro
mistero è quello che segue il leader, o l’ex tale, dell’ISKP, il trentenne kabuliota sunnita Sanaullah Ghafari, da tempo individuato sia
per terra che in aria, tanto che il cambio di denominazione in Shahab
al-Mushjir, gli poteva servire per sviare ricerche in rete, non i puntamenti di
droni mirati sulla sua persona, ricercatissima soprattutto dopo il terribile
attentato all’aeroporto di Kabul (183 vittime a fine agosto 2021). Eppure fino
allo scorso giugno nessuno esecuzione mirata né talebana né occidentale l’aveva
colpito, fino all’annuncio della sua morte in circostanze misteriose data da alcuni
media pakistani. Circostanze che non dovevano combaciare con la quasi
contemporanea operazione dei Servizi segreti talebani contro l’Isis Khorasan
nella provincia di Kunar. Lì erano state distrutte alcune sue basi e uccisi una
ventina di miliziani. Non lui. Poco tempo fa un sito web considerato vicino
all’Intelligence dell’Emirato di Kabul, ha diffuso la nota che Ghafari è vivo e
agisce con un suo nucleo della regione del Baluchistan. Se sarà vero si vedrà.
Sicuramente il network jihadista recluta ad ampio spettro, non solo tajiki,
seppure il gruppo di fuoco della Crocus City Hall sono tali e dicono d’aver
ucciso per denaro.