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domenica 31 marzo 2024

Gaza, torna la Freedom Flotilla

 

Quattro navi organizzate dalla Freedom Flotilla Coalition salperanno il prossimo 14 aprile dirette a Gaza per rompere l'assedio israeliano e consegnare aiuti umanitari alla locale popolazione. Una di queste navi può ospitare un migliaio di passeggeri, le restanti trasportano 5.500 tonnellate fra alimenti, articoli per l’igiene e la cura personale, forniture mediche, abbigliamento. La Freedom Flotilla Coalition invita gli attivisti per i diritti umani e le istituzioni a sostenere e salvaguardare la missione per aprire un corridoio marittimo verso Gaza e sostenere due milioni di persone stremate. L'inazione davanti a quello che in tanti definiscono un genocidio di fatto rappresenta un'offesa alla legge, alla giustizia, alla moralità. L’organismo di sostegno ai gazesi ribadisce la drammaticità delle condizioni cui sono costretti i cittadini dall’aggressione di Israele e dal blocco in corso. L'accesso a beni di prima necessità, dal cibo all’acqua potabile fino alle forniture mediche continua a essere sadicamente limitato dal governo di Tel Aviv, provocando un deleterio impatto sulla vita di civili innocenti. Per i mai cessati bombardamenti di Israel Defence Forces dal cielo a da terra il numero delle vittime palestinesi sta raggiungendo le 40.000 unità, oltre 25.000 erano donne e bambini. I feriti superano abbondantemente il numero di 70.000. In tanti muoiono per mancanza e insufficienza di cure causate dal blocco di farmaci, attrezzature e per la distruzione mirata di ospedali. Oltre 1,7 milioni di persone sono sfollate e più del 60% delle case a Gaza risultano distrutte. Migliaia di persone si stimano intrappolate sotto le macerie. Dicono gli organizzatori della Flotilla: “Crediamo fermamente che ogni individuo e organizzazione abbia l'obbligo morale di opporsi a questo genocidio. Anche gli attivisti per i diritti umani e le organizzazioni della società civile hanno responsabilità significative. Consapevoli di tali responsabilità La Flottiglia Internazionale per la Libertà chiede il sostegno di singoli e associazioni e accetta di fornire aiuti umanitari nella Striscia. La Flottiglia rappresenta un'opportunità fondamentale per la comunità globale, per correggere il corso della storia e tracciare una via verso la pace e la giustizia per la Palestina, la regione e il mondo, nel rispetto dei doveri legali internazionali”.


sabato 30 marzo 2024

Turchia, provaci ancora Ekrem

 


C’è una ferita tuttora aperta nel dominio che il sultano Erdoğan ha stabilito nel suo rapporto con la Turchia in atto da un quarto di secolo: la perdita della municipalità che l’aveva lanciato in politica. Lui calciatore del quartiere di Kasımpaşa era diventato primo cittadino della metropoli sul Bosforo e da lì, leader e premier e presidente e presidente assoluto. Eppure cinque anni or sono il partito a cui ha dato l’anima perdeva l’amministrazione delle cinque maggiori città anatoliche ((Istanbul, Ankara, Izmir, Antalya, Adana) e di molte altre. Si pensava fosse il segnale della crisi, personale e di regime. Così non è stato. Perché nell’anno del centenario della Turchia moderna Erdoğan si è fatto rieleggere Capo di Stato, si è collocato al fianco di Atatürk vivendo politicamente molto più a lungo. Domani l’ennesimo suo uomo Murat Kurum quarantottenne, ingegnere e padre di famiglia con un percorso professionale e politico dal basso, di quelli che piacciono a Erdoğan perché gli ricordano il suo, cercherà di lavare l’onta e riprendere la città simbolo della patria. Nelle amministrative in programma è la sfida più attesa davanti a sessantadue milioni di elettori, più di un milione giovani al primo voto,  e trentaquattro partititi in ottantuno province per trecentonovanta località. E’ Ekrem İmamoğlu il fantasma da far svanire. Il volto semi-nuovo del Partito repubblicano che nel 2019 vinse per ben due volte. Il risultato di quel 31 marzo lo dava avanti di 15.000 preferenze contro l’uomo dell’Akp, Yildirim, che pure era stato ministro. Il partito di governo fece ricorso per presunte schede mal conteggiate e lo ottenne. Nella ripetizione di giugno il successo di İmamoğlu fu addirittura trionfale: ottocentomila voti in più del rivale. La stella del sindaco faceva sognare i sostenitori del Chp anche per le presidenziali dello scorso anno. Ci pensò la magistratura a fermarlo con una condanna ricevuta a causa di pregresse dichiarazioni che ledevano l’operato del ‘Supremo consiglio elettorale’. I vertici del Partito repubblicano denunciarono l’iniziativa come una censura alla libertà di pensiero, il leader Kılıçdaroğlu fece un sospiro di sollievo poiché si toglieva di  torno un concorrente per le presidenziali, peraltro interno al suo schieramento. Erdoğan di sospiri ne fece due, perché contro l’anziano alevita la ricorsa alla carica sarebbe scivolata sul velluto, come in effetti è stato. 

 

Ora İmamoğlu è chiamato a bissare, cosa non semplice nella Turchia che in due decenni ha mostrato di trasformarsi senza rinunciare all’essenza della sua fede politica, perlomeno fra la maggioranza della popolazione. Porta come dote di buon governo della ciclopica municipalità che sfiora i quindici milioni di abitanti le innovazioni urbane in fatto di trasporti, linee metropolitane, tangenziali verso il nuovo aeroporto Havalimanı su cui, però, dice la sua direttamente il governo, visto che quelle e altre infrastrutture create in giro sono stati i pilastri della rielezione presidenziale di Erdoğan. La partita di Istanbul è una delle sfide di questa tornata amministrativa che non vede più cartelli fra i partiti i quali corrono ciascuno con un proprio candidato. L’unica alleanza a reggere è quella fra gli islamisti dell’Akp e i nazionalisti del Mhp, cementata sull’esecutivo dal quale il presidente ha estrapolato il ministro dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione. Kurum ha svolto per un quinquennio tale mandato con l’osservanza che i fedelissimi riservano direttamente al grande capo. E’ il motivo per cui è stato prescelto per il difficile confronto di Istanbul, pur essendo più un tecnico che un carismatico. Ma la sua competenza e la vicinanza con l’azienda statale Toki, che da lungo tempo presiede l’edilizia popolare e d’emergenza nel Paese, riesce a dargli argomenti per rintuzzare gli attacchi di İmamoğlu sulle carenze e inadempienze della società nella predisposizione di alloggi prima del catastrofico terremoto dell’anno passato e della successiva emergenza, ancora ampiamente deficitaria per la fornitura di case. La rabbia degli interessati si è solo parzialmente stemperata, sebbene sarà più il tema inflattivo e del carovita a far fibrillare il voto in diverse piazze. L’attuale sindaco di Istanbul è fra i colleghi di partito che guidano altre località quello che può trarre vantaggi ben oltre la riconferma. Se vince si lancia definitivamente sulla scena nazionale come alternativa a Erdoğan, che potrebbe tentare di prolungare il mandato avendo come unico ostacolo l’età. A quel punto il Chp dovrebbe ricucire con l’ennesima sigla della politica kurda - il Partito dell’uguaglianza e della democrazia dei popoli, ultima creatura per sfuggire alla messa fuorilegge - che ha i suoi candidati anche in queste amministrative.
 

 


lunedì 25 marzo 2024

Tajiki, l’odio verso i russi

 


Ne è passato di tempo - più di quarant’anni - quando un tajiko nato a Bazarak e diventato eroe del Panshir metteva fuori uso i carri T-62 nelle gole di quella valle durante tre battaglie comprese fra l’aprile e il dicembre 1980. Era l’anno seguente l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, intervenuta a pacificare con le armi le sponde armate che contrapponevano i leader ed ex alleati Taraki e Amin, artefici della cosiddetta Rivoluzione di Saur. Ahmad Shah Massud -  il leone - era immortalato con suo pakol, l’aria sognante, e pratiche di guerriglia riprese da quel comunismo internazionale dei Mao Tze Dong, Guevara e Giap, delle loro lunghe marce, rivoluzioni impossibili, resistenze ventennali. Un modello di guerriglia comunista applicata contro le truppe ortodosse di Mosca dai mujaheddin islamici che neppure le scorrerie aeree dei bombardieri Tu-16 riuscirono a piegare. A ripiegare, dopo un decennio di perdite e umiliazioni, furono i soldati russi, in un prodromo della crisi politica che archiviò definitivamente l’esperienza storica bolscevica. Ma il tajiko, stratega e narciso, molto gloriato dalla stampa occidentale, dopo quella ritirata e la cancellazione d’ogni ombra di Repubblica Democratica Afghana, si ritrovò a guerreggiare contro altri capibastone etnici (pashutun, hazara, uzbeki) tutti conosciuti come locali Signori della guerra. Furono quattro anni (1992-96) di pseudo guerra civile diventati nient’altro che massacri fra le proprie fazioni banditesche e a danno della popolazione soprattutto di Kabul (80.000 morti), città contesa appunto da Massud e Rabbani contro Hekmatyar, Sayyaf, Dostum, Khalili, Mazari; quindi “pacificata” dalla discesa dei talebani del mullah Omar nella capitale. 

 

Tajiki, ma non solo, sono gli aderenti della branca afghana dell’Isis, detta Khorasan dall’antica regione persiana che s’estendeva fino a gran parte dell’attuale territorio afghano, e di quelle che nel 1921 diventarono le Repubbliche Sovietiche, poi Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. La nascita dell’Isis-K è datata 2015, quando il Daesh siro-iracheno subiva l’offensiva dell’alleanza kurdo-statunitense da una parte e dei mercenari russi che difendevano il regime di Asad, combattendo contro altri mercenari jihadisti provenienti dal Maghreb e dalla stessa Europa. Se ne è riempita la cronaca nerissima della geopolitica mediorientale fino al 2019. E’ comunque il 2017 l’anno in cui, settimana dopo settimana, quando le truppe Nato parlavano da tempo di smobilitazione e ritiro ma continuavano a sostenere il governo fantoccio di Ghani, che taliban ortodossi della Shura di Quetta e dissidenti afghano-pakistani che avevano assunto la sigla ISKP si misuravano a suon di bombe per dimostrarsi i più incisivi, distruttivi, assassini verso la popolazione (soprattutto la minoranza sciita hazara), i più capaci d’infiltrarsi e colpire ovunque ed essere padroni del territorio. Rimasero famosi gli assalti ad alcune città, poste per giorni sotto attacco non solo nelle basi della fantomatica Afghanistan National Army predisposta dagli americani, ma contro le stesse Unity Forces della Nato. Solo i bombardamenti a tappeto di quest’ultima e il successivo uso di droni sbrogliavano situazione che gli stivali a terra dei militari occidentali non riuscivano a risolvere militarmente. Perciò l’ingresso talebano nell’agosto 2021 nella capitale non fu certo una sorpresa. I turbanti ortodossi avevano, momentaneamente, avuto la meglio sui dissidenti dell’ISKP, e gli oltre tre anni di trattive con gli uomini della Cia a Doha, fecero il resto. L’Isis Khorasan, pur sostenuta da porzioni dei Tehreek-i Taliban pakistani ma non più dal ribelle network Haqqani riavvicinatosi agli ortodossi, dal 2020 compì una ritirata strategica oltreconfine, nei territori delle Fata. Lì ha atteso lo sviluppo dell’orizzonte afghano riaffacciandosi con nuove operazioni nel 2022.

 

Attentati sparsi per il Medioriente, dalla Turchia all’Iran, e nuovamente in Afghanistan naturalmente, dove l’orientamento talebano calibrato sul nazionalismo del proprio Emirato, sunnita e pashtun, si scontra coi princìpi del Califfato del Levante propugnati dai jihadisti del Khorasan. Gli stessi che enunciava Al-Baghdadi nelle famose prediche prima della definitiva dipartita. Avvenuta in una località siriana nell’ottobre del 2019, senza che sulla sua figura carismatica, e dunque utile a tenere uniti fedeli e combattenti, calasse quell’incertezza che per anni aveva accompagnato il fittizio mantenimento in vita del mullah Omar, nel timore che i clan talebani afghani si disperdessero. Altro mistero è quello che segue il leader, o l’ex tale, dell’ISKP, il trentenne kabuliota sunnita  Sanaullah Ghafari, da tempo individuato sia per terra che in aria, tanto che il cambio di denominazione in Shahab al-Mushjir, gli poteva servire per sviare ricerche in rete, non i puntamenti di droni mirati sulla sua persona, ricercatissima soprattutto dopo il terribile attentato all’aeroporto di Kabul (183 vittime a fine agosto 2021). Eppure fino allo scorso giugno nessuno esecuzione mirata né talebana né occidentale l’aveva colpito, fino all’annuncio della sua morte in circostanze misteriose data da alcuni media pakistani. Circostanze che non dovevano combaciare con la quasi contemporanea operazione dei Servizi segreti talebani contro l’Isis Khorasan nella provincia di Kunar. Lì erano state distrutte alcune sue basi e uccisi una ventina di miliziani. Non lui. Poco tempo fa un sito web considerato vicino all’Intelligence dell’Emirato di Kabul, ha diffuso la nota che Ghafari è vivo e agisce con un suo nucleo della regione del Baluchistan. Se sarà vero si vedrà. Sicuramente il network jihadista recluta ad ampio spettro, non solo tajiki, seppure il gruppo di fuoco della Crocus City Hall sono tali e dicono d’aver ucciso per denaro.   

sabato 23 marzo 2024

L’Isis mitraglia Mosca

 


Meno impegnato a insanguinare Kabul,  e non per un efficiente controllo talebano del territorio bensì per l’uscita dell’Afghanistan dall’attenzione mediatica per la voglia di guerra occidentale trasferita su nuovi fronti, l’Isis si riaffaccia nella Russia putiniana. Lo fa alla sua maniera: massacrando innocenti. In questo caso spettatori di un concerto previsto nella Crocus City Hall di Krasnogorsk, periferia nord della capitale. Un commando di cinque miliziani, filmato e fotografato da telecamere interne, ha aperto il tiro al bersaglio sulla folla nell’ingresso e nella sala, freddando e finendo a terra anche molti feriti. Centoquarantatre morti. Una strage rituale, simile ad altre conosciute in Europa: davanti e dentro la redazione del parigino Charlie Hebdo e al Bataclan, sebbene il terrore era stato diffuso usando come armi camion o auto lanciate sulla folla a Nizza, Barcellona, Berlino. Nell’elenco dei massacri firmati dallo Stato Islamico fuori dal territorio siro-iracheno che dal 2015 aveva denominato Daesh, l’ultimo capitolo s’era consumato a inizio anno a Kerman, Iran meridionale. Novantacinque vittime maciullate con l’esplosivo di due kamikaze durante il quarto anniversario dell’assassinio del generale Soleimani, in un Paese che s’apprestava a un discusso voto. Quest’altro attacco arriva dopo un’altra scadenza elettorale, dibattuta e discutibile, che ha portato alla conferma plebiscitaria di Vladimir Putin, con oltre l’87% dei consensi e una corposa partecipazione al voto, 77%. Dati contestati dagli oppositori politici e non, e comunque acquisiti a livello internazionale. Le ipotesi di un’operazione orchestrata dai Servizi del nemico ucraino con lo zampino anglo-americano vengono meno non solo per la negazione degli indiziati, ma per l’ufficiale e orgogliosa rivendicazione dell’Isis che attraverso i suoi canali ribadisce la propria paternità, come già fatto in altre occasioni. Ancor meno accreditabile un’azione di oppositori interni, viste la spietatezza assassina e la complessa realizzazione di uccisioni, incendio del Centro e successiva fuga del commando, addestratissimo e motivatissimo. Lo smacco che può constatare il Cremlino e la sua Federál'naja služba bezopásnosti Rossijskoj Federácii, è la mancata previsione del possibile attentato, nonostante i suggerimenti offerti dalla Cia, svelati in queste ore dal portavoce della Casa Bianca Kirby. 

 

Ulteriore falla è la mancata sorveglianza armata della struttura dove accorrevano migliaia di persone. Seppure il reale terrore che simili agguati introducono nell’ordinaria vita delle popolazioni, ovunque nel mondo, sono i mille e mille luoghi affollatissimi che possono diventare potenziali obiettivi. Se alcune piazze sono state colpite e ora dimenticate, la gamma di possibili bersagli che questo network che ha da tempo soppiantato Al Qaeda nella sanguinaria scalata del terrore, possono risultare i più vari. L’organizzazione risponde a proprie logiche: impedire la gestione di territori e sistemi di vita all’imperialismo globale, che merceologicamente parlando ha centri di potere a New York e Londra, come a Mosca e Pechino, pur con bandiere, nazionalismi e ideologie contrapposte. Contro di loro innalza la sua bandiera che recita “La ilàha illa Allàh", ossia "non c'è dio se non Allah” un credo teologico in un mondo che è prossimo solo nell’affarismo mercantil-finanziario, ma risulta eternamente diviso in lobbies di potere condite da nazionalismi, ideologie di ritorno, confessionalismi d’ogni genere. Se i miliziani islamici esprimono un antistorico fondamentalismo non sono da meno ciò che esprimono leader di nazioni che praticano un uso della religione (hindu, ebraica, ortodossa, evangelica) con finalità oppressive, suprematiste, razziste. Così mentre la geopolitica occidentale marchia a suo uso e consumo come terrorista Paesi e movimenti a lei sgraditi (Iran, Hamas, Houthi) pur praticando un terrorismo di Stato (come continua a fare Israele con stragi ben peggiori dell’assalto al Crocus City Hall) il terrorismo targato ieri Qaeda oggi Isis continua a prosperare e far proseliti. Pescando nelle contraddizioni delle minoranze etniche cui non si vuol riconoscere autodeterminazione da cui si reclutano miliziani o per sentimento o pagandoli profumatamente. Del resto mentre si discute su eserciti internazionali, gli uomini della guerra sono solo militari di professione o mercenari. Si mesta nel torbido? Sicuramente. In questo sporco mondo ognuno fa il suo sporco gioco: perché il Kosovo è diventato una nazione e non possono esserlo l’Ossezia e il Nagorno-Karabakh? Perché da oltre settant’anni i palestinesi non hanno un proprio Stato?

martedì 19 marzo 2024

India contro Bharat, le marce di Rahul

 


Più dell’Iran, con elezioni già dimenticate. Più della Russia putiniana che festeggia lo zar eterno, più degli States incapaci di rinnovarsi e fermi a un duello vecchio di quasi un decennio, nell’anno delle urne globali è il Paese-continente ad accentrare l’attenzione maggiore per la ciclopicità d’un evento lungo due mesi. Oltre novecento milioni di elettori che iniziano a votare il 19 aprile e a scaglioni andranno avanti fino a maggio per la divulgazione dei risultati ai primi di giugno. Uff… una maratona altamente defatigante che vuol tenere i contatti con la democrazia in una nazione infatuata dall’omologazione autoritaria. Tale appare, anno dopo anno, il clima imposto dal partito-regime del premier Modi alla ricerca d’una terza investitura. Per fermare lui e il Bhratiya Janata Party ostentatamente hindu condito del peggior fanatismo razzista, il Partito del Congresso, di tradizione riformista ma finito in un familismo clanista già ai tempi di Indira Ghandi  e poi in caduta libera verso corruzione e malgoverno con Sonia e Rajiv Ghandi, tenta una rincorsa che pare impossibile. Ha formato con altri gruppi d’opposizione l’Alleanza Nazionale Indiana Inclusiva per lo Sviluppo (l’acronimo fa India). Con quest’unione spera se non di conquistare la maggioranza, per lo meno di risalire la china visto che gli ultimi anni politici l’hanno relegato in un angolo del Lok Sabha (la Camera Bassa) con 52 seggi contro i 303 del Bjp. E’ ancora una volta un Nehru-Ghandi - l’ex rampollo Rahul, oggi ultracinquantenne, il tempo passa per tutti - figlio di Sonia e nipote di Indira a metterci il faccione da contrapporre a quello enigmatico del Narendra nazionale. Nel suo mescolare la tradizione con cui ha inanellato marce ancestrali, attraversando da nord a sud il Paese, e modernismo pop: il raduno stile Bollywood organizzato domenica a Mumbai per lanciare la campagna elettorale, il mite Rahul prova a colmare un distacco tuttora abissale fra la sua India del dialogo e la Bharat della supremazia hindu. 

 

Nel corso delle sue marce: da nord a sud, nel 2022-23, da est a ovest fino a domenica scorsa la gente osserva il sudore imperlargli la fronte, uomini e donne toccano i suoi abiti, gli parlano e ascoltano dalla sua voce gli inviti all’unità e il desiderio di libertà individuale e collettiva. L’operazione immersione nella multiforme realtà indiana sembra funzionare, eppure i numeri in un Paese a più di nove zeri sono sempre deficitari. E’ vero che alcune reti televisive hanno diffuso servizi sull’iniziativa promozionale del leader del Partito del Congresso, però i canali nazionali su cui regna il controllo governativo sorvolano o sottovalutano. "Panch nyay" i "cinque pilastri della giustizia" per donne, giovani, agricoltori, operai e giustizia in termini di equità sono stati il fulcro del verbo di Rahul. Durante il cammino ha annunciato un pagamento annuale d’una rupia lakh (1.200 dollari) per ogni donna al di sotto della soglia di povertà e una prenotazione del cinquanta per cento in tutte le nuove assunzioni di posti di lavoro del governo centrale per le famiglie povere. Una promessa in funzione elettorale. Un lancio populista per contrastare il “welfare governativo” di Modi che nel suo decennio di potere ha lanciato programmi di sviluppo per le donne e i ceti svantaggiati per calamitarne il voto, cui non sono seguite concretizzazioni di sorta. In un’intervista televisiva Aiyshwarya Mahadev, portavoce del Partito del Congresso, ha dichiarato che in ogni tappa delle marce "abbiamo interagito con parti interessate alle nostre parole d’ordine unificanti, la popolazione parlava dei suoi problemi. Questo ha contribuito a plasmare ulteriormente il nostro programma, ci ha offerto spunto per ulteriori idee. Diversi partiti regionali e i nostri alleati nel blocco India hanno proprie posizioni che saranno presentate come proposte per le elezioni". Secondo lui tutto in armonia e pluralismo. Con perfidia dal Bjp dicono che gli avversari si caratterizzano per il caos regnante nell’Alleanza. Comunque la dura valutazione nasconde quasi un compiacimento, come a dire: con un’opposizione così andremo sul velluto. 

 

giovedì 14 marzo 2024

India-Bharat, la società della discriminazione

 


In attesa delle consultazioni politiche di fine aprile - una ciclopica scadenza con più di novecento milioni di potenziale elettori - l’India del Bharatiya Janata Party rende attuativo il ‘Citizenship Amendment Act’, legge contestatissima approvata nel 2019 e finora non applicata. Ufficialmente per il subbuglio della pandemia di Covid-19, sebbene in mezzo ci siano state le dure manifestazioni dei contadini che hanno assediato Delhi e altre grandi città e i contrasti sempre più violenti fra la maggioranza hindu e le minoranze religiose, soprattutto quelle islamica e cristiana. Che pur minoranze contano rispettivamente circa duecento e sessantacinque milioni di fedeli. Questa parte della popolazione indiana ha visto bruciati i luoghi di culto, le proprie abitazioni private, gli esercizi commerciali per mano dei fanatici hindu che aumentano di numero e di violenza. L’hindutva, la teoria razzista e fascista creata da Vinayak Savarkar negli anni Venti del secolo scorso, è diventata orientamento per numerosi deputati arancioni che siedono nella Lok Sabha e indirizzano ampi settori del partito di governo. Con la legge diventata esecutiva in questa settimana cittadini in fuga da nazioni attigue (Pakistan, Afghanistan, Bangladesh) possono ricevere lo status di rifugiato purché non professino la fede musulmana. Perciò parsi, sikh, buddisti, giainisti finanche cristiani (al di là di scoprire che possono finire perseguitati) vengono accolti. I musulmani no. La discriminazione ha creato in questi anni proteste diffuse nei vari stati della federazione indiana e anche all’estero, fra gli emigrati dall’India di religione islamica e fra i fratelli islamici di altre nazioni. Motivo: la palese illegalità della norma in contrasto con quanto prevede l’articolo 14 della Costituzione: “Lo Stato non deve negare a qualsiasi persona l'uguaglianza davanti alla legge o la parità di protezione delle leggi all'interno del territorio dell'India". Però Modi e i suoi vanno avanti a testa bassa. Dopo la conferma con un terzo mandato, il loro prossimo obiettivo è modificare la Costituzione. Un vizio diffuso fra i leader che amano l’autoritarismo e desiderano una Carta conforme alle proprie insane voglie. 

 

Finora il lasso temporale per diventare cittadini indiani è di undici anni, regola che potrebbe essere confermata o mutata. Sicuramente nessuno straniero islamico può sperare in quest’inserimento. Secondo il ministero dell’Interno “Negli ultimi tempi sono state diffuse molte idee insane”. Il richiamo non è alla legge in questione, bensì a chi la contesta. Hanno voglia le organizzazioni umanitarie a gridare contro le forme restrittive sostenute dal Bjp, il rullo compressore dello Stato dispotico introdotto da un decennio da Modi va avanti senza interruzioni. La repressione interna, compresa quella della stampa, non viene denunciata dall’informazione main stream internazionale, lanciata anche giustamente contro le elezioni farsa in Russia di questi giorni. Ma, ad esempio, in fatto di filtri e blocchi non sono l’Iran né la Cina ad avere il primato nell’impedire alla cittadinanza l’accesso a Internet: le recenti statistiche pongono in testa l’India. Ovviamente l’India di Modi che non è certo più quella di Nehru. Se si guarda all’intolleranza religiosa, gli assalti incendiari alle chiese cristiane, messi in atto da estremisti hindu in alcuni Stati come il Manipur e dimenticati dalle forze dell’ordine, sono paragonabili a quelli di Boko Haram in Nigeria o di certo fondamentalismo dell’Isis. E un campione assoluto di aggressività e intolleranza qual è Israele, che abbatte le case dei palestinesi da Gerusalemme a tanti angoli della Cisgiordania, viene preso a modello dalle autorità indiane che si scagliano contro i musulmani cui viene impedito il diritto all’abitazione tramite demolizioni. Il governo Modi fa dell’illegalità assoluta un comportamento ammissibile e non perseguibile per legge, in totale spregio dei diritti civili e umani. Un nuovo codice penale rende possibile tuttociò attribuendo ai cittadini il reato di “attacco alla sovranità e integrità dell’India“ anzi del Bharat, come il partito hindu vuol tornare a denominare il Paese, contro un termine considerato retaggio coloniale. L’intento né linguistico né storico-culturale maschera ben altra smania: limitare la libertà a chi non risulta in linea coi parametri che vogliono lo Stato-continente una società degli hindu per gli hindu.

 

martedì 12 marzo 2024

L’Italia armata abbatte droni Houthi

 


Secondo l’ex affarista delle armi Guido Crosetto, da due anni ministro della Difesa nel governo Meloni: “L’equipaggio della Duilio è stato bravo ad abbattere due droni“. I velivoli senza pilota erano stati lanciati nella notte dai guerriglieri Houthi, ma non è chiaro se fossero diretti contro il cacciatorpediniere italiano che pattuglia il Mar Rosso, partecipando alla missione dell’Unione Europea denominata Aspides, oppure verso mercantili di passaggio. L’orgoglio del dicastero, prim’ancora che della Marina militare, inanella il terzo abbattimento di drone in pochi giorni perché, a detta del ministro, gli Ansar Allah, i partigiani di Dio stanno dirigendo i propri “fuchi ronzanti” contro le navi che vigilano il tratto di mare fra Mokha e Aden, entrambe località yemenite in cui agiscono gli Houthi. Al contrario il loro portavoce ribadisce: “Non abbiamo preso di mira alcuna nave italiana, i nostri obiettivi sono quelle britanniche, statunitensi e israeliane. Se l’Italia vorrà coinvolgersi nella guerra contro di noi, decideremo”. Preciso e perentorio. Ma attualmente in via Venti Settembre, lo spirito è quello dei La Marmora e Cadorna, e respirare polvere da sparo diventa essenziale. Così, più zelanti di quanto prevede la stessa operazione velenosa nel Mar Rosso, i comandi della Marina in piena sintonia col ministro della Difesa passano all’azione e mettono il Belpaese in una condizione di verifica, secondo i personalissimi parametri che si danno i ‘partigiani di Dio’. Peccato, perché l’Italia potrebbe svolgere mansioni negoziatrici anziché incarnare il ruolo dell’avanguardia offensiva nell’intricata vicenda della ribellione e repressione lunga quasi un quindicennio in quel travagliato territorio.

 

 
Altri nostri governi non s’erano schierati né con né contro gli Houthi, evitando le forniture d’armi alle monarchie della ‘Cooperazione del Golfo’ che dal 2015 bombardano l’entroterra yemenita, distruggendone anche il patrimonio artistico e architettonico, nella capitale Sana’a e in altre regioni. Finora gli screzi missilistici hanno coinvolto l’aviazione e la marina francesi, la fregata britannica HMS Richmond, alcune unità del Central Command statunitense di stanza in quel tratto di mare e una nave mercantile con la bandiera di Singapore. Certo, da quando i guerriglieri yemeniti minacciano attacchi lungo le proprie coste in solidarietà con la popolazione di Gaza sottoposta a massacri indiscriminati e vessazioni alimentari da parte di Israele, la tensione è altissima. Per non rischiare gran parte delle compagnìe di navigazione ha scelto di rinunciare a quella rotta sino al canale di Suez, e dall’Europa all’Asia e viceversa circumnavigano l’Africa. Solo quest’ultimo commercio s’attesta al 40% degli scambi fra i due continenti, mentre per il Mar Rosso passano il 12% delle merci mondiali. In tali condizioni la percorrenza s’allunga di due settimane, le spese di noleggio marittime e assicurazioni fanno lievitare il prezzo delle merci, che comunque vengono scaricate sui Pil dei singoli Paesi e sui prezzi delle merci al dettaglio. Perciò dei comportamenti dei governi nazionali e dell’Unione ne risentono quei cittadini europei chiamati alle urne il prossimo giugno e i loro omologhi asiatici. I sostenitori della diplomazia in luogo della guerra potrebbero compiere un passo semplice, semplice: riconoscere quale legittimo governo yemenita quello dei rivoltosi, al posto dei cloni fantoccio inventati da Washington e Riyad. E l’Italietta, in cerca di glorie belliche internazionali, farebbe meglio a orientare verso la diplomazia talune pose di esibizionismo militare

sabato 9 marzo 2024

Pakistan, i clan riacciuffano le Istituzioni

 


Con l’elezione di Ali Zardari alla presidenza del Pakistan, ottenuta con 411 preferenze sull’avversario Khan Achakzai che ha raccolto 181 voti, il cerchio si chiude. Il ferreo patto con cui la Lega Musulmana-N e il Partito Popolare Pakistan, dopo anni di polemiche e reciproci contrasti si sono avvicinati per escludere il Tehreek-e Insaf Party dell’ex premier Imran Khan ha prodotto la spartizione degli incarichi. Nei giorni scorsi Shehbaz Sharif della Lega è diventato capo del governo, oggi Zardari del PPP s’è garantito la carica di capo di Stato. La quale pur solo rappresentativa costituisce pur sempre un’Istituzione che può dialogare con gli altri poteri forti, ufficiali e ufficiosi: i palazzi di Islamabad dove risiedono Esecutivo, Forze Armate e Intelligence. I due clan Sharif e Bhutto-Zardari un tempo nemici ora collaborano per tenere lontano dalle leve del potere gli imponderabili seguaci dell’uomo che ha scosso le trame politico-militari del Paese: l’ex campione di cricket Khan. Accusatore del ceto dirigente cui appartengono i leader Nawaz Sharif e Ali Zardari entrambi condannati e incarcerati per corruzione e tangenti, Khan è tuttora in prigione con la stessa accusa. Lui si schermisce parlando di pretestuosa montatura, visto che la condanna  gli ha addebitato la mancata dichiarazione fiscale d’un orologio, pur prezioso, ricevuto in dono da un manager durante il suo premierato. Il fatto, indubbiamente censurabile, non regge il confronto con la macchina degli illeciti balzelli che i citati esponenti di Lega e Partito Popolare intascavano nell’esercizio delle loro funzioni. Proprio l’oggi sessantanovenne Zardari, proveniente da una ricca famiglia di proprietari terrieri, s’era guadagnato l’epiteto di “mister ten per cent” indicativo della percentuale che riscuoteva alla conclusione di ogni affare di Stato. Il suo matrimonio con Benazir Bhutto, figlia d’una storica stirpe politica pakistana e prima donna premier della nazione con due incarichi dal 1988 - nella fase che interrompeva la feroce dittatura del generale Zia-ul Haq - al 1996, fu chiacchierato. In effetti aveva i contorni dell’unione di comodo fra un elemento giovane e capace, Benazir s’era laureata a Oxford ed era fortemente motivata nella carriera, mentre Ali era solamente benestante per eredità familiare, ma risultava uno sfaccendato sciupafemmine dedito a vacanze e feste. Dopo la morte in un attentato di Benazir (dicembre 2007) avvenuta durante una campagna elettorale che la riproponeva come possibile vincitrice, il marito visse un periodo d’immeritata popolarità sull’onda dello sdegno per l’esecuzione orchestrata da membri dell’esercito. Il generale e presidente pakistano Musharraf fu sospettato d’essere fra i mandanti dell’omicidio, ma non fu mai incriminato. Comunque il clan Bhutto-Zardari teneva ben strette le mani sul partito che il figlio Bilaw guida assieme al papà. Probabilmente con l’attuale incarico di Ali, sarà il rampante rampollo a orientare la linea del PPP.

domenica 3 marzo 2024

Pakistan, Sharif torna premier

 

Benzina sul fuoco nell’evoluzione delle contestate elezioni pakistane, vinte da un partito cancellato come tale, il Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti), impossibilitato a usare il suo simbolo e costretto a presentare candidati indipendenti riuniti nel Sunni Ittehad Council (SIC). Però i 93 seggi comunque conquistati in Parlamento non hanno consentito al raggruppamento dell’ex presidente Iram Khan (lui è attualmente incarcerato) a formare un esecutivo, che ora passa per il compromesso fra i due partiti-famiglia storicamente in contrasto fra loro: la Lega Musulmana-N degli Sharif e il Partito Popolare Pakistano dei Bhutto-Zardari. Pur di superare lo stallo i due clan si sono avvicinati e, raccogliendo anche l’adesione di deputati di formazioni minori, hanno eletto Shehbaz Sharif primo ministro con 201 preferenze. L’altro pretendente, Omar Ayub Khan che non è parente di Imran, ne ha ricevute 92. Così, dopo circa due anni dalla caduta del governo guidato dall’ex campione di cricket, il minore degli Sharif, che già aveva preso il suo posto, torna a dirigere un Paese ferocemente spaccato. I sostenitori del Pti nei due anni precedenti alle attuali consultazioni hanno inanellato decine di marce e manifestazioni di protesta contro una manovra definita illegale e, per bocca del loro leader, orchestrata dai militari sotto dettatura della Casa Bianca. Illazioni inaccettabili, sostenevano gli avversari tornati al governo. Ma questa che dovrebbe risultare un’investitura ufficiale si trascina strascichi ulteriormente polemici per l’accusa di brogli lanciati dai candidati indipendenti facenti capo al Tehreek-e Insaf. In occasione dello spoglio elettorale, nel quale risultavano comunque vincitori, costoro additavano il ‘Consiglio Elettorale’ di scarso o inesistente controllo di seggi in determinate aree dove gli attivisti dei partiti-famiglia avrebbero taroccato schede a proprio favore. In tal modo gli indipendenti del Pti hanno perso voti preziosi per eleggere propri candidati e il loro primato è risultato limitato. "Cambieremo il destino del Pakistan" ha dichiarato Sharif nel suo discorso d’insediamento davanti agli slogan ostili dei legislatori del Pti che aggiungevano in coro: "Ladri!". Shehbaz ha ringraziato il fratello maggiore, rientrato dal dorato esilio londinese per sostenerne la corsa al premierato, e gli alleati per averlo aiutato a diventare primo ministro. "Asif Ali Zardari e Bilawal Bhutto Zardari nessuno di loro ha mai pensato di danneggiare il Pakistan" affermava con scarsa sincerità il neo eletto, lanciando un’approvazione fino a qualche giorno fa mai pensata. Gli analisti pensano che i tumulti di strada torneranno presto sia per la bile dei sostenitori di Khan, sia per lo stallo riscontrato dall’occupazione e dall’inflazione (al 40%) che mese dopo mese prosciuga i salari.