Pagine

lunedì 18 dicembre 2023

Egitto, ancora sei anni di Sisi

 


L’Egitto conferma Adbel Fattah al Sisi presidente per un terzo mandato. La regola se l’era fatta da sé nel 2019 modificando la Costituzione e prolungando da quattro a sei anni l’incarico. Ma il successo che stavolta “scende” all’89,6% rispetto ai precedenti picchi d’un unanimismo quasi totale, mostra come novità una crescita esponenziale dei votanti: 66,8% afferma l’Autorità Elettorale, Hazem Badawi. Dati credibili? Al momento non si può dimostrare il contrario. Dati probabilmente gonfiati, come lo erano nel 2014 e 2018 quando il 97% presidenziale era frutto d’una partecipazione al voto rispettivamente del 30% e del 20% dell’elettorato, non del 45% dichiarato. Con una quota di elettori che sale ben oltre il 50% il regime può vantare una conferma più solida, seguendo la linea che caratterizza tutti i populisti più o meno autocratici del mondo, fedeli al motto: è il popolo che mi vuole. Eppure c’è un’ampia fetta di popolo, talvolta maggioritario, che non vuole e non vota. L’altra riconferma nel panorama egiziano è la drammatica assenza di alternative e di prospettive. I restanti candidati presidenziali non potevano essere ascritti né fra gli oppositori, né fra gli outsiders. Senza offesa si trattava di figure talmente deboli e fittizie da risultare evanescenti per tutti, dagli elettori ai commentatori. Eppure ogni sigla: Partito socialdemocratico egiziano di sinistra per Farid Zahran, Wafd per Sanad Yamama, Partito popolare repubblicano per Hazem Omar (per la cronaca quest’ultimo è andato meglio degli altri raccogliendo il 4,5%.) vanta un passato e una storia. Però si tratta di storie sbiadite, tutt’uno con lo scialo e la negazione delle origini compiute dal nasserismo terzomondista già all’epoca di Sadat, per tacere dello sciagurato trentennio di Hosni Mubarak. La novità a questa tendenza politica scaturiva dal diffuso desiderio di ribellione sbocciata nel gennaio 2011. Ma s’è trattato d’un lampo. Incendiario di per sé e presto bruciato dalla repressione poliziesca. Un pezzo di tale novità, che non era affatto nuova perché s’appoggiava alla tradizione della Fratellanza Musulmana duramente perseguitata negli anni Sessanta, ha trovato per alcuni mesi consenso, denaro e voto da milioni di elettori. Quando Morsi batté un membro della dinastia delle Forze Armate - Ahmad Shafiq - le schede furono milioni, lo scarto fra i due alcune centinaia di migliaia. 

 

Quelle furono le uniche votazioni ampiamente partecipate, con intrusioni e forzature limitate dai tempi della “rivolta dei liberi ufficiali”. Sappiamo com’è andata a finire: gli islamisti, che non brillavano per efficienza e lungimiranza di pianificazione, vennero scalzati con un referendum di sfiducia promosso dai partiti laici, dai liberali ai comunisti comprese frange dei rivoluzionari di Tahrir. Ma chi salì al potere fu l’ennesimo militare, colui che tuttora comanda a suon di consensi dell’urna più o meno anabolizzati.  La costante che il Paese conserva è, appunto, la strabordante forza della “lobby delle stellette”, molto apprezzata dalle democrazie europee, dai padrini d’Oltreoceano e dal nemico d’un tempo: Israele. Che da anni con Sisi ripete la pantomima istituzionale con consensi assoluti in assenza di avversari veri. Perché per via, nei posti di lavoro, nella società tutta nessun dissenso è ammesso. Soltanto provare a esibirlo è costato, e continua a costare, mesi o anni di galera. Mentre chi tenta la via parlamentare deve rinunciare, com’è accaduto stavolta ad Ahmed Tantawi e Gamela Ismail, entrambi ritirati per timori di ritorsioni. In quest’ultima tornata l’opposizione era rimasta immobile. Lacerata, autoafflitta da beghe interne e dall’impossibilità d’una politica normale. Si tratta dei gruppi associati nel cosiddetto Movimento Democratico Civile - fra cui l’Alleanza socialista, Karama, Comunisti, Nasseristi, Dostour, Conservatori - che già a settembre, prima che Tantawi si proponesse, si spintonavano a vicenda. Per cosa? Non si capiva. Dai non numerosi incontri neppure gli addetti ai lavori tiravano fuori questioni pregnanti. Era apparsa una spaccatura interna con accuse di ‘autoritarismo e fascismo’ lanciate addosso da alcune componenti. Alla vigilia delle elezioni la testata Mada Masr aveva raccolto qualche nota degli scontenti che rinunciavano al voto, dissentivano da chi crede ancora possibile un dialogo con l’apparato di Sisi. 

 

Il ‘Dialogo nazionale per democrazia interna’ (piano da lui lanciato nel 2021) è fallito, così il nasserista Sabahi criticava la scelta di Zahran di presentare la candidatura. Eppure nel 2014 l’aveva presentata lui stesso, ma a detta dei fedelissimi allora si poteva sperare in un’alternativa. Ora non più. Allora non si comprende la disponibilità di nasseristi e sodali di far passerella politica. Una cruda realtà non rivelata è che dietro la volontà, propria e di qualche fan, questi leader sono nullità. Presiedono partiti diventati gusci vuoti, sicuramente anche per il terrore diffuso dalla repressione di regime. Che tollera un pluralismo di facciata, prosciugato di valore e valori, di programmi e progetti, spesso di aderenti e attivisti, lasciando i capi e qualche collaboratore a testimoniare una vitalità. Ma è una vitalità millantata. Così Sisi ha campo libero. Stravince alle urne, accresce il consenso per la tendenza popolare a schierarsi col più forte. Ed è sempre il Sisi dei 60.000 prigionieri politici. Degli omicidi a tappeto nel triennio 2014-2016 fra cui l’assassinio di Regeni. Dell’omertosa copertura ai quattro mukhabarat assassini. Ma questo lo rammentano solo le coscienze critiche di certi oppositori, incarcerati oppure esuli. Chi li sostiene ha boicottato senza mezzi termini la presunta “parata di democrazia” elettorale. Sono gli attivisti del Movimento socialista rivoluzionario che hanno invitato gli elettori a non recarsi alle urne. Hanno accusato di collaborazionismo i tre candidati e anche i loro partiti, sostenendo come i tre anni di ‘dialogo nazionale’ hanno dipinto una falsa realtà. Sono fra i pochi a denunciare una povertà interna senza precedenti, una crisi economica tempestosa, tassi d’inflazione che mettono in ginocchio la maggioranza dei cittadini, compresi larghi strati d’un ceto medio ormai azzerato. Parlano di resilienza alla quale aggrapparsi per resistere, mettendo nello stomaco ormai non si sa cosa. L’arte dell’arrangiarsi incombe sempre più nella quotidianità egiziana. 

 

Proprio il disastro economico doveva rappresentare il fulcro d’una contestazione al ‘decennio sisiano’ da parte del trio che ambiva di oscurare il presidente. Nessuno ha trattato questa nota dolentissima per milioni di cittadini che si privano di carne (la mangiamo ogni quindici giorni, di più non possiamo permettercelo dichiarava una donna del ceto medio intervistata dalla Bbc). Addirittura la frutta, di cui i terreni egiziani sul Delta e attorno al Nilo sono ricchissimi, giunge al mercato a prezzi esorbitanti, diventando un lusso. Voto o non voto, a inizio dicembre, l’inflazione attestata al 40% era destinata a crescere. Il Paese, che ha un debito estero di 165 miliardi di dollari, cerca di attirare capitali stranieri, sebbene il governo abbia sperperato fondi nei progetti faraonici della New Cairo, utili solo a ristrette élite vicine al ceto politico. Lì sono finiti miliardi raccolti per l’emergenza Covid, anziché costruire ospedali sono serviti per uffici e abitazioni di lusso. Una parte dei finanziamenti per la magnificenza della nuova sede amministrativo-politica giungono dalle petromonarchie, ma tante strutture pubbliche (uffici, servizi, scuole) versano in stato d’abbandono senza che il governo ne risponda o si crei scrupoli. Insieme a salari bloccati, prezzi alle stelle, inflazione galoppante ci sarebbero ottimi motivi per rilanciare proteste. Eppure tutto tace. Molti media internazionali hanno archiviato notizie sulla repressione, che ha raggiunto picchi sanguinosissimi e poi è riparata nella rimozione di responsabilità. Nella pratica degli arresti ‘stop and go’ che prevedono ingressi, uscite e rientri nelle galere all’infinito, e processi altrettanto eterni. Così per un Patrick Zaki che riacquista la definitiva libertà, Sisi lascia in prigione migliaia di casi simili. Di questo non si parla. Anche talune Ong dei diritti non appaiono così puntuali nella denuncia. All’interno del Paese nulla si muove perché un’intera generazione di attivisti, oggi trentenni e quarantenni, laici e islamici, marcisce nelle carceri speciali e nei bracci della morte. Le pratiche repressive hanno stroncato ogni rilancio di democrazia.

 

Del resto il ruolo di sicurezza nella geopolitica mediterranea che l’Egitto ricopre su indicazione statunitense ed europea, coi finanziamenti di Emirati Arabi e Arabia Saudita, lega il governo cairota agli ‘Accordi di Abramo’, seppure al momento congelati dalla guerra Israele-Hamas. L’Egitto non era direttamente coinvolto in quel patto, che prevede uno scambio di energia e tecnologia fra Tel Aviv da un lato e Riyad-Dubai dall’altro. Per quanto il ministro del commercio emiratino dica di non voler mescolare affari e politica, gli affari sono di per sé politica. Le grandi potenze non praticherebbero embarghi e boicottaggi economici se si guardasse esclusivamente ai capitali. Infatti gli ‘Accordi di Abramo’ rappresentano il nuovo capitolo di normalizzazione delle relazioni di Israele col mondo arabo, dopo l’avvicinamento del secolo scorso avvenuto con Egitto e Giordania. Con la crisi degli ostaggi sequestrati da Hamas e le conseguenti trattative in cui primeggia un altro potentissimo emiro smanioso di protagonismo, il qatariota Al Thani, anche Sisi s’è ritagliato  uno spazio. L’aiuta il fattore geografico: Rafah rappresenta l’unica porta da cui far transitare soccorsi alla popolazione di Gaza, bombardata giorno e notte dall’8 ottobre. Le aperture del valico sono state limitatissime, assolutamente insufficienti a detta di agenzie Onu, strutture umanitarie e sanitarie internazionali che parlano di condizione apocalittica nella Striscia, con rischi di ulteriori decessi (quelli inferti da Tsahal a oggi sono ventimila) per infezioni, freddo, fame. I due statisti arabi che conducono patteggiamenti, solo in alcuni casi fruttuosi, coi rappresentanti di Israele e del Movimento Islamico di Resistenza, sono stati scelti per interesse delle parti in causa. Netanyahu accetta di ampliare la cerchia delle amicizie fra le petromonarchie, come ha fatto coi protagonisti dell’accordo del 2020 (Arabia, Emirati Arabi, Bahrein). Haniyeh, da tempo trasferitosi nella capitale qatariota, trova lì un sicuro rifugio e finanziamenti per il mantenimento degli apparati del partito nella Striscia e in Cisgiordania. Entrambi non pongono veti sull’uomo forte egiziano proposto dagli americani. Al Thani e Sisi, in poco tempo hanno addirittura scalzato il presidente turco Erdoğan, negli ultimi anni pilastro dell’azione e della mediazione, dal Mashreq libico al Medioriente siriano. Washington - protettore pur se in qualche caso critico di Tel Aviv ma mai suo oppositore, come dimostra il veto posto al Consiglio dell’Onu alla mozione d’interruzione dei bombardamenti sui civili della Striscia - non vuole offrire ad Ankara un posto chiave nella crisi. Memore forse degli attriti d’una dozzina d’anni addietro per l’arrembaggio a Mavi Marmara. E se quel momento è roba passata, ora nel Mediterraneo orientale ci sono in ballo lo sfruttamento delle Zone economiche esclusive, da cui proprio la Turchia è esclusa a vantaggio di Grecia e Cipro, e conseguenti pattugliamenti armati. Insomma l’odierna Mavi Vatan, la Patria blu turca, può diventare più ingombrante, dunque è meglio limitare. Sebbene quel ch’è tenuto fuori dalla porta di Gaza potrà rientrare dalla finestra libica, dove il balletto dei presidenti mattatori può spingere nell’angolo il Sisi mediatore mondiale.  


 

Nessun commento:

Posta un commento