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martedì 18 luglio 2023

La trappola per Zaki

 


L’infinita trappola per Zaki giunge al capolinea: tre anni di condanna, inappellabile, dopo tre anni e mezzo di persecuzioni. Così lo studente-ricercatore Patrick, egiziano di Mansour col cuore universitario all’Alma Mater di Bologna, già rinchiuso per parecchi mesi nelle patrie galere, dovrà ora scontare la restante pena. La trappola era scattata il 7 febbraio 2020 mentre il mondo s’accorgeva della pandemia di Covid-19. L’attacco virale alla sua libertà avvenne all’aeroporto del Cairo per opera degli zelantissimi Servizi segreti del presidente-generale Al Sisi. I mukhabarat lo sequestrarono, e questo già fece tremare i polsi a familiari e amici perché per un giorno nessuno seppe nulla della sua sorte. Come finiscono i sequestrati nell’Egitto militarizzato è noto al mondo intero, dunque la tensione era a mille. Poi il giovane apparve in un commissariato, l’accusavano di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, terrorismo, falsa propaganda. Tutto per aver pubblicato sul personale profilo Facebook pensieri a sostegno di chi, come l’avvocato Khaled Ali dal 2018 è impegnato nella difesa dei diritti umani. In quel periodo gli oppositori e i semplici commentatori della spietata repressione di regime, illustri o sconosciuti che fossero, finivano serrati nelle carceri speciali. Ong come Human Rights Watch ne contavano oltre sessantamila, per tacere delle migliaia di scomparsi, cittadini di cui dal luglio 2013 (l’anno del golpe-bianco di Al Sisi e amici), non s’è saputo più nulla. Nel 2020 al ventinovenne Zaki, figlio d’una famiglia borghese di Mansour di religione copta, andò di lusso, si ritrovò in prigione in attesa di processo, sebbene il suo avvocato avesse denunciato torture seguite al fermo. I primi interrogatori polizieschi ventilavano anche presunti legami con Giulio Regeni, cosa che incuteva ampi timori, visto il trattamento criminale riservato al ricercatore friulano.

Presto si comprese che i vertici politici e la magistratura d’Egitto sperimentavano nuovi trattamenti per gli accusati (Patrick non è stato il solo): una sorta di processo infinito, costellato di ‘stop and go’ come in certe gare sportive, con la differenza che il detenuto trascorreva non qualche minuto a bordo pista, ma settimane in fetide e sovraffollate celle di carceri speciali come il famigerati istituto cairota di Tora. Lì è morto per crisi cardiaca non curata l’ex presidente Morsi, lì è ingabbiato il Gotha della Fratellanza Musulmana, arrestato fra il golpe di luglio e la strage d’agosto 2013 nella moschea di Rabaa. Lì è finito pure Zaki fra il 2020 e 2021. Lui e i suoi legali conoscevano le convocazioni a ridosso delle udienze, talvolta neppure un’ora prima, a tal punto che in qualche circostanza l’avvocato non faceva in tempo a raggiungere la Corte perché questa chiudeva la rapidamente la sessione con un rinvio. Di quaranta-cinquanta giorni in quaranta-cinquanta giorni. Così per mesi. Per tre anni. Era ovviamente una tattica per stressare il detenuto, deteriorarne le condizioni fisica e psichica, gli attivisti a suo sostegno facevano notare la situazione, sua e dei compagni di cella: fino a venti presenze in quattro metri quadrati, dormendo a turno su sei materassi sfondati gettati su pavimenti fradici, infestati da blatte, con una latrina che tracimava… Oggettivamente un Inferno. Eppure, per voce di chi segue il disperante contesto carcerario creato dal regime di Al Sisi, che ripercorre superandolo il modello repressivo del raìs Mubarak, questo tipo di detenzione non è delle peggiori. Crea un naturale logorio fatto di disagio per claustrofobia, sovraffollamento, rischio d’infezioni per la promiscuità e la scarsa nutrizione. Tant’è che durante i due anni acuti di Sars-CoV, si sono registrati un’infinità di contagi e tanti decessi di persone infette anche in giovane età.

Ma è esentato dalla visita di certe “squadrette” che, con le buone o le cattive, ti conducono in celle ancor più speciali, dove usano fili elettrici e batterie d’auto vecchie ma buone per sfibrarti ogni parte del corpo, e poi sacchetti di sabbia con cui percuoterti mentre penzoli dal soffitto oppure sei predisposto nella cosiddetta “posizione del pollo”.  E’ la scuola con cui la Cia ha formato i mukhabarat per le altrettanto famigerate Extraordinary expedition, roba che la Strafexpedition del Primo conflitto mondiale, gas e mazze di ferro sul nemico, risulta una pratica dilettantesca. Insomma nella vicenda Zaki, che comunque mese dopo mese assumeva, buon per lui, un discreto impatto mediatico rispetto ai casi di detenzioni misconosciute o dimenticate, i magistrati hanno lavorato più dei carcerieri, posticipando all’infinito la sentenza. Entravano in scena, seppure molto marginalmente, i rapporti politici fra Roma e Il Cairo, perché il ricercatore di Mansour oltre a essere adottato dalla comunità accademica e dall’amministrazione bolognese, diventava per il nostro Paese un caso di coscienza per lenire la sindrome da abbandono mostrata dalle Istituzioni nazionali verso il delitto Regeni. E’ palese come per Giulio solo familiari, amici, attivisti, una minoranza giornalistica e un paio di procuratori della Repubblica abbiano sostenuto le richieste di verità e giustizia davanti al governo egiziano totalmente refrattario a qualsiasi collaborazione. Chi sedeva a Palazzo Chigi dal 2016 e chi ci siede oggi, ha sempre evitato di palesare lo sconcerto su simili vicende, interrompendo i rapporti col grande Paese arabo al fine di salvaguardare meri interessi mercantili. Omertà in cambio di gas. Che è poi l’andamento diffuso nel ceto politico mondiale che blatera di diritti umani secondo interessi parziali e momentanei, creando pesi e misure assolutamente squilibrati, come lo sono le valutazioni su autoritarismi e guerre. E intrappolando, non solo giovani volitivi e coraggiosi come Patrick, ma quel sistema democratico esaltato e reclamato a parole, mentre si sorride e s’abbracciano i carcerieri e satrapi di mezzo mondo. 

pubblicato su Confronti online

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