Sono nomi noti, alcuni notissimi ai membri della National Security Agency ancor più che agli attivisti dei diritti che provano a difenderli, quelli dei perseguitati egiziani tuttora rinchiusi nelle patrie galere. Ma ci sono anche sconosciuti, detenuti o deportati in luoghi reconditi da cui non possono comunicare né condizione giuridica né stato di salute. Oltre ad Alaa Abdel Fattah - che resta in cella, mentre il suo avvocato Mohamed al-Baqer s’è visto graziato dal presidente al-Sisi insieme a Patrick Zaki, e Ahmed Douma, represso da tre presidenti: Mubarak nel 2009, Morsi nel 2012, Sisi dal 2013 – ci sono altri Ahmed, Orabi e Gika. Anche loro sarebbero felici di festeggiare con familiari e amici la fine d’un incubo, come ha fatto il ricercatore di Mansoura prima di volare in Italia per l’abbraccio collettivo con l’Università Alma Mater e la città di Bologna. Eppure Gika, arrestato in più occasioni è torturato anche sessualmente, è sparito da una quarantina di giorni. Orabi è detenuto ormai da nove mesi. Anche lui ha subìto torture, una frattura a un braccio, la cui scarsità di cure potrebbe lasciargli il segno come gli accadde nel 2011 durante la rivolta prima contro Mubarak, quindi contro il Consiglio Superiore delle Forze Armate del feldmaresciallo Tantawi. Già all’epoca “l’Esercito del popolo” sparava nel mucchio uccidendo e menomando. Orabi perse un occhio a conferma della buona mira dei cecchini che il regime piazzava nei punti caldi della capitale, quando cortei, presidi, sit-in avevano ancora luogo, ovviamente a tutto rischio di chi partecipava. Negli anni seguenti tutto questo è scomparso. Diventato presidente il generale al-Sisi ha curato di persona la via del controllo sociale e politico, imponendo l’impraticabilità della piazza, dove un raduno di più di tre persone è bollato come atto di sovversione; l’incontro anche in luoghi chiusi è un’anticamera di terrorismo; la libera informazione viene marchiata di attentato alla sicurezza nazionale; l’espressione di pensiero in pubblico, oppure via web o social egualmente considerato un crimine contro la nazione.
E’ il clima che lo stesso Patrick Zaki ha personalmente conosciuto nel suo triennale calvario dentro e fuori le prigioni di Stato. E’ il motivo per cui nella sua prima uscita internazionale a Bologna s’è presentato senza mezze misure come attivista dei diritti, una scelta voluta davanti a un presente forzato dall’accordo di vertice italo-egiziano. Il ringraziamento all’Esecutivo Meloni, autore del favorevole passo diplomatico, l’ha compiuto espressamente rifiutando, però, la cooptazione rituale con volo ufficiale-abbracci-foto ricordo proposte dal governo italiano. Probabilmente perché il sospetto di tanti riguardo al baratto compiuto: liberazione in cambio di affari e pietra tombale sull’omicidio Regeni, frulla anche nella testa dell’attivista Zaki. Non prestarsi a vicinanze politiche, né in Egitto né in Italia o altrove, gli consentirà d’indirizzare la sua coscienza e il suo cuore verso la causa, in buona parte comune, con chi sta lottando - dentro e fuori i confini nazionali, dentro e fuori le obbrobriose galere - contro una dittatura spietata, mascherata di buonismo ipocrita. Le prime mosse di quello che attualmente è un giovane uomo baciato dalla “fortuna” della diplomazia geopolitica, guardano ai fratelli prigionieri che non hanno alle spalle un garante di peso. Sostenuti solo dall’affetto parentale, dalla solidarietà di amici e compagni di sventurata lotta, da nuclei comunque circoscritti di libera informazione e di quell’altra tipologia perseguitata che sono gli attivisti dei diritti. Zaki sceglie da che parte stare, e la cosa fa onore alla propria passione e alla propria intelligenza. Se ai governi democratici e partecipativi d’Occidente e Oriente interessa tenere alta la bandiera d’una Giustizia con la maiuscola, dovranno lodare Patrick e coadiuvarne l’attività presente e futura. Affinché chi soffre dell’altra faccia della bontà di al-Sisi, quella che scivola nella malvagità e nel crimine, possa finalmente essere liberato.