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giovedì 31 marzo 2022

L’India dell’esclusione e del livore

 

L’amore fra Uma e Sharjeel è cosa molto più complessa di quello vissuto da Rizvan Khan e Mandira Rathore, protagonisti d’uno dei film più noti della produzione di Bollywood: Il mio nome è Khan. Anche perché le sequenze in celluloide si svolgono fra emigrati indiani negli Stati Uniti e l’unico, non semplice, problema di Khan è quello di dimostrare, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, che lui indiano di religione islamica non è un terrorista. Nonostante i pregiudizi etnico-religiosi potrà unirsi alla bella donna di cui s’è invaghito sebbene lei sia di fede hindu. Si tratta d’una pellicola di dodici anni fa e le stesse Major di Mumbai che, pur fra retorica e sentimenti, hanno orientato abbastanza mentalità e costumi d’una parte del Paese-continente, ora risentono delle ventate fondamentaliste enormemente rafforzate dalla conquista del potere del Baharatiya Janata Party. Nell’ultimo biennio, complice la pandemia che creava enormi problemi all’inefficienza del governo Modi, il suo staff ha cercato ovunque capri espiatori su cui convogliare attacchi d’ogni genere. Diventavano una distrazione di massa dalle pire crematorie per le vittime del Covid-19, dall’inadeguatezza delle cure, dalla disorganizzazione amministrativa e sociale, dalle spaventose carenze del sistema ospedaliero e sanitario. Questo era il quadro disastrato di tutti i distretti indiani. Nell’ottobre scorso emblematico è stato l’episodio d’un controllo antinarcotici durante una crociera che ha portato all’arresto, fra gli altri, di Aryan Khan, figlio dell’attore Shah Rukh Khan, uno dei divi dell’India cinematografica. Il giovane poi è stato scagionato perché estraneo alle contestazioni, ma egualmente la vicenda ha alimentato attacchi politici del Bjp e del fanatismo nazionalista hindu contro la ‘perversione’ della cinematografia bollywoodiana e dei suoi attori islamici. Nella quotidianità se Sharjeel volesse non tanto impalmare, bensì manifestare intenzioni amorose a Uma, verrebbe additato come un seguace del “love jihad” con cui gli arancioni bollano la presunta tattica islamica di sedurre le donne hindu per spingerle a una conversione religiosa. 
 
Ricordiamo che le colpevolizzazioni usate dall’attuale esecutivo per ideologizzare comportamenti naturali, mirano a esasperare rapporti e relazioni per dividere la cittadinanza. E’ un secondo atto che segue l’altra accusa lanciata nel 2020 sui musulmani, quella del “Coronajihad”. I seguaci di Allah venivano additati come ‘untori’ della Sars-CoV2 in giro per il Paese. Pratiche subdole e infamanti che, comunque, riescono a toccare le corde degli strati meno acculturati della popolazione, facilmente manipolabili e aggregarli in cacce alle streghe contro la diversità dai modelli proposti dal governo. In cima a tutti c’è l’India per i soli hindu nella peggiore versione razzista dell’hindutva, che nell’ultimo decennio sta emarginando sia una visione laica e democratica della nazione, sia la tolleranza interreligiosa voluta dai padri fondatori del Paese decolonizzato. Giansenisti, buddisti, sikh, zoroastriani, le minoranze presenti seppure disorganicamente sul vasto territorio, sono tutte nel mirino del fanatismo delle costellazioni politico-militari alleate del Bjp, ma i duecento milioni di islamici e i sessantasette milioni di cristiani risultano ormai sotto un fuoco incrociato non sempre metaforico. Nella seconda metà del 2021 le fiamme hanno azzerato numerose rivendite islamiche, con ricadute su una micro economia già messa a dura prova appunto dal Coronavirus. Incenerito il banchetto, nella migliore ipotesi il piccolo negozio, distrutte le merci contenute, il proprietario islamico o cattolico ha dovuto cercar sostentamento fuori dai suoi  commerci. Dove non ha agito il fuoco purificatore del radicalismo hindu ha potuto il boicottaggio operato dai clienti di altra etnìa e fede. La spaccatura fra la popolazione è un effetto sul quale puntano i diffusori dell’odio: creare barriere mentali e, dove non arrivano quelle fisiche, operare sradicamento sociale, umano e nei casi in cui le minoranze si stringono a propria difesa, attuarne la ghettizzazione. 
 
E’ grave che tutto ciò sia frutto non solo di brutali violenze scaturite dall’arretratezza civile, con una sopraffazione alimentata anche dalle prebende dei mandanti, ma che tale consuetudine venga tollerata da polizia e magistratura. Nell’Uttar Pradesh (il più popoloso Stato coinvolto nelle elezioni di febbraio-marzo svolte anche nel Punjab, Uttarakhand, Manipur e Goa) davanti agli sberleffi o alle bastonature rivolte a fedeli musulmani riuniti in preghiera fuori dalle moschee, le istituzioni sono rimaste silenti. Quindi latitanti al cospetto delle distruzioni d’immagini sacre avvenute durante le festività natalizie. Ad Agra fanatici hindu si sono scagliati sulle icone d’una scuola cristiana, bruciandole. A Varanasi hanno attaccato una celebrazione, gridando: ”Morte ai missionari”. Altri assalti s’erano verificati negli Stati di Assam e dell’Haryana con l’abbattimento di statue nei luoghi di culto e intimidazioni a chi pregava. L’accusa al proselitismo che induce a “conversioni forzate” è da tempo al centro del  fanatismo hindu che cerca vittime sacrificali. Bersaglio anche congregazioni storiche, come quella di Madre Teresa di Calcutta, incolpate di attirare subdolamente le giovani, ferendo il sentimento hindu. Una prima normativa sulle conversioni religiose (Conversion Bill) fu adottata a metà anni Cinquanta, poi nel 1967 viene introdotta una legge anti conversioni (Orissa Freedom of Religion Act). Si trattava di regolamenti applicati in singoli Stati che praticavano un distinguo da quanto non era stato volutamente legiferato alla nascita dell’India moderna. Il premier Nehru s’era sempre opposto a rigide leggi, temeva che ne scaturissero cattivi metodi, inganni e molestie per i cittadini. Col senno del poi il suo pensiero si rivela profetico. La Prohibition of Unlawful Religious Conversion Bill, varata nel 2021 nell’Uttar Pradesh, rende la conversione religiosa un reato che può prevedere fino a 10 anni di reclusione.  Alle cosiddette ‘conversioni forzate’ alcuni Stati contrappongono la Ghar Wapasi con cui gli hindu cristianizzati tornano alla fede primaria. I cattolici locali considerano questa una reale forzatura. Il vescovo Mathias l’ha affermato con decisione, ma il suo pulpito è circoscritto, e la vita nella città di sua competenza – Lucknow – diventa sempre più difficile. 

 

Nell’esasperazione dei rapporti il ceto politico hindu vuol introdurre anche lì la prassi di rinominare località che hanno riferimenti islamici. Così Allahabad è diventata Prayagraj, e per Lucknow è in ballo la denominazione Lakshman, il fratello minore del dio Rama. Visto che la tendenza ha preso piede con metropoli storiche (Bombay diventata Mumbai sotto la spinta di Bal Thackeray discusso leader della formazione filo nazista Shiv Sena, Calcutta trasformata in Kolkata che si rifà a Kolikata, uno dei tre villaggi locali precedenti l’arrivo britannico) l’intento di scrollarsi di dosso i retaggi del colonialismo toponomastico fornisce all’integralismo arancione un alibi per l’altrui esclusione, specie sul fronte confessionale. La simbologia sta caratterizzando alcune proteste scolastiche nella ricca regione Karnataka, dove l’ipertecnologica capitale Bangalore ha anch’essa mutato in nome in Bengaluru. Nei college di Kundapura e Udupi dai primi giorni di febbraio gruppi di studentesse musulmane hanno iniziato una protesta. Da oltre un mese alcune di loro che indossavano l’hijab non erano ammesse in aula. Così tutte fuori col velo sul capo. Per contro studenti hindu hanno iniziato a ostentare vistose sciarpe e copricapo arancioni, assumendo toni aggressivi verso le colleghe. Mentre le autorità scolastiche meditano d’introdurre una divisa d’istituto, la polizia è intervenuta perché la contrapposizione non degenerasse. “Eppure per chi mostra simboli religiosi (bindi, il punto colorato sulla fronte di hindu, buddisti, giainisti oppure tripundra le linee orizzontali con un punto di cenere sacra, sempre da parte hindu) non ci sono divieti” hanno osservato le giovani islamiche, chiedendo rispetto e parità di trattamento. Ma come abbiamo visto i toni sono già caldissimi e, in alcune aree, scorre il sangue e si contano le vittime. 

 

Eppure i più colpiti continuano a essere i dalits - gli oppressi - (50.000 le azioni violente e gli omicidi nei loro confronti nel 2020) molto più che ultimi della catena sociale. Rappresentano, assieme ai propri maggiori oppressori delle caste dominanti (rajputs, thakurs), il medioevo indiano sopravvissuto al colonialismo e inserito nella nazione moderna. Del resto il sistema delle caste, che conserva la gerarchia dell’ineguaglianza e dello sfruttamento, veniva difeso anche da Gandhi quando affermava che l’induismo non poteva farne a meno. Il rilancio di tale pratica tradotta nell’estremismo dell’hindutva ha rilanciato la teoria della ‘maggioranza hindu’ che raccoglie un numero elevatissimo di adepti, ovviamente fra gli stessi dalits in gran parte fedeli hindu. Tenendo quest’ultimi al fondo d’una piramide bloccata, atta a impedire ogni travaso, scalata sociale, uscita dai ghetti, a vantaggio d’una ristretta cerchia di potentissimi hindu. Di fatto la vera maggioranza indiana sono le caste inferiori e i cittadini di altre confessioni, ma tutti risultano subalterni alle caste superiori. Queste pur non raggiungendo neppure il 10% della cittadinanza però occupano e gestiscono il 90% dei ruoli istituzionali e professionali. L’aspetto manipolatorio di questo progetto ha trovato nel Bjp un interprete determinato e irruente, seppure la scelta dell’uomo che lo incarna, Narendra Modi, figlio d’un modesto venditore di tè, appaia una contraddizione in termini. Ma si tratta d’un artificio calcolato che fa credere agli ultimi di non essere esclusi. Più che una favola una falsità, condita dal razzismo di ritorno. E mentre l’indigenza aumenta: secondo studi interni dell’Università di Bangalore (ormai Bengaluru) il Paese conta almeno 200 milioni di nuovi poveri post pandemia (il 38% degli abitanti dell’Uttar Pradesh lo sono), la ruralizzazione di milioni di persone, in fuga dalla perdita di lavoro nelle città, si è ormai consolidata. Tematiche come lotta alla povertà e disoccupazione, diritto alla salute (ufficialmente le vittime della pandemia superano il mezzo milione su 42 milioni di casi accertati), programmazione industriale e tecnologica sono stati ben poco presenti nel dibattito pre-elettorale. Modi s’è rifugiato nella fede, brandita come una spada su diversi e oppressi lasciati nei loro ghetti o destinati a sparire.   

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