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venerdì 12 novembre 2021

Pakistan, Khan patto col terrore

Anche chi lo critica per le ultime due mosse: accordo coi Tehreek Labbaik Pakistan della scorsa settimana, avvìo di colloqui coi Tehreek-e Pakistan di queste ore, non può dire che il primo ministro pakistano Imran Khan non apparisse come un eccentrico egocentrico. Non solo per il glamour da campione del cricket e quello da sciupafemmine delle cronache rosa. Dopo aver abbracciato la politica e fondato il suo Tehreek (Movimento)-e Insaf (cioè della Giustizia) ben 25 anni or sono, aveva già detto di voler dialogare coi talebani. Certo, allora guidava un gruppetto minoritario, che solo dal 2013 ha iniziato la conquista di seggi in Parlamento, 35, sino al successo del 2018 che gliene ha dati 119. Da odierno leader di una nazione che, da quando è sorta, si destreggia fra diversità e contraddizioni Khan sembra voler lasciare il segno in un momento assai delicato per il Grande Medio Oriente. Il suo daffare s’inserisce nelle manìe di grandezza geopolitica regionale di altri premier di Islamabad, però desta anche sospetti. Tornando ai recenti passi gli si contesta l’arrendevolezza verso una formazione minuta ma agguerritissima (TLP) che ha nel fondamentalismo religioso la linfa incendiaria della sua politica. Ultimamente i Labbaik facendo leva sulla legge sulla blasfemia, presente nel Paese dal 1986, hanno avviato un braccio di ferro con le istituzioni chiedendo l’allontanamento dell’ambasciatore francese (che poi s’è dileguato di sua iniziativa) per le vignette di Charlie Hebdo e la liberazione di Rizvi, il loro capo, detenuto dalla scorsa primavera per eccessi fondamentalisti. Per ottenere ciò hanno minacciato, e per tre settimane, attuato il blocco del traffico commerciale sulle direttrici nord-sud. Alla fine l’hanno spuntata ricavando con la mobilitazione di strada un risultato più esplosivo di qualsiasi attentato o rivolta armata. I grandi imprenditori hanno spinto sul governo per una soluzione, infischiandosene di come il successo della protesta dei Labbaik ne potesse accrescere un credito politico tutto giocato sull’intolleranza. Quell’intolleranza che fa usare la ‘Blasfemy Law’ contro le minoranze cattolica e ahmadi. 

 

Khan ha avallato, incurante oppure opportunisticamente orientato a favore del sentimento più intransigente che movimenti estremisti come il TLP veicolano nel Paese. Poi ha raddoppiato, quando gli echi delle concessioni al radicalismo confessionale non s’era ancora spento. Eccolo, dunque, aprirsi ai jihadisti. Tali sono i Tehreek-e Taliban, fuorilegge per avere in quattordici anni insanguinato strade, scuole, parchi della nazione. Eppure in questi giorni il governo tratta con loro e stabilisce un mese di cessate il fuoco, sebbene alla vigilia del negoziato nel nord Waziristan quattro militari sono stati uccisi dai miliziani TTP. Che comunque per avviare una trattativa chiedono la liberazione di centinaia di loro militanti. Perché Khan sceglie questo negoziato? E’ lui a farlo? Due ipotesi. La prima: lo fa di sua sponte perché tramite i Tehreek-e Taliban vuole accreditarsi come grande amico dell’Emirato di Kabul, e collocarsi in un futuro prossimo in prima linea nel condizionare la politica del Paese vicino. Cosa che, peraltro, i leader di Islamabad provano a fare da decenni.  Seconda ipotesi: Khan subisce indirettamente la spinta fondamentalista, quella populista dei Labbaik e quella jihadista, sempre latente e pericolosa, dei taliban interni che possono tornare a colpire indiscriminatamente. Da un quadriennio hanno ricevuto colpi e perdite, sono riparati entro il confine afghano. In parte fondendosi coi miliziani dell’Isis Khorasan, ormai presenti in tante province, oltre a Kabul. Continuano a essere una mina vagante che quella parte del Pakistan legata a capitali, mercati, rapporti geopolitici non può permettersi di avere come avversario. Così Khan s’adatta a discutere con chi accampa pretese (il rilascio di soggetti accusati di terrorismo) prima che i colloqui s’intavolino, e potrebbe scoprire che a direzionare i Tehreek-e Taliban siano i turbanti d’oltre confine, non nella persona del morbido Baradar bensì nel pretenzioso clan Haqqani. Il vero jolly di una partita del fondamentalismo di lotta e di governo, ormai ultra nazionale.

 

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