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martedì 4 maggio 2021

West Bengala, il bruciante tributo di Modi al passato

In queste ore si fa un gran parlare della sconfitta elettorale del premier indiano Modi. In realtà le elezioni statali (paragonabili alle amministrative dell’Occidente, solo con numeri oggettivamente ciclopici) non rivestono un’importanza simile alle politiche. Eppure le aspettative che proprio il Primo Ministro aveva creato nel più popoloso dei cinque luoghi chiamati alle urne, il West Bengala, avevano da due mesi accentrato l’attenzione dei media interni e internazionali. Sia per le criticità della pandemia in forte risalita dal mese di febbraio, tanto che diversi scienziati e ricercatori chiedevano alla politica nazionale di rinviare l’appuntamento, sia per la difficile gestione dell’organizzazione che ruotava attorno a una campagna elettorale basata su raduni numerosi e pericolosi per la promiscuità creata. Narendra Modi – superficiale e borioso, carente e incapace, un Bolsonaro asiatico – ha tirato dritto mentre il Paese, settimana dopo settimana, accendeva ogni giorno migliaia di pire per la cremazione delle vittime del Covid. Inseguiva Modi un riscatto in un luogo evocativo, appunto dove Calcutta è capitale, la patria di Syama Prasad Mukherjee, un politico d’inizi Novecento e fondatore del Bharatiya Jan Sangh. Questo è stato il partito della destra hindu, considerato il braccio parlamentare del Rashtriya Swayamsevak Sangh a sua volta braccio armato, nel senso letterale del termine, e tuttora responsabile d’inaudite violenze contro avversari e gente comune. 

 

Insomma si trattava d’intervenire in grande stile nella regione dove le radici dell’attuale partito di governo, Bharatiya Janata Party, si sono sviluppate. Da qui l’iperattivismo del Capo dell’Esecutivo che sognava un rilancio nel popoloso Stato dell’est, nominalmente è definito occidentale per distinguerlo dal Bengala orientale, diventato dal 1971 Bangladesh. L’uno e l’altro sono la complessa metamorfosi d’una spartizione legata all’annosa vicenda post indipendenza che nel 1947 ha creato India e Pakistan, nazioni condizionate dal rispettivo orientamento religioso. Il West Bengala nel trentennio 1977-2007 ha conosciuto la guida d’una coriacea coalizione marxista; poi ha visto spuntare la figura d’una donna fortemente amata e premiata elettoralmente dalla sua gente: Mamata Benerjee. Poco più che ventenne portava nel Partito del Congresso, afflitto da intrecci e intrighi della dinastia familiare Nehru: da Indira, figlia dello statista Jawaharlal, a Rajiv Ghandi, quindi a sua moglie Sonia, una ventata di cambiamenti soprattutto su questioni morali e di lotta alla corruzione. Sebbene fra Mamata e Sonia i rapporti siano rimasti cordiali, l’attivista diventata leader vanta un rigore virtuoso da venire indicata come uno dei politici innovatori nel Paese. Smarcatasi dal Partito del Congresso Benerjee s’è posta alla testa d’un movimento diventato gruppo politico, Trinamool Congress, ha speso la sua popolarità in polemica con gli esponenti marxisti, facendosi forza dell’appoggio dei contadini verso i quali ha intrapreso politiche di sostegno. 

 

Per quanto si evidenzi la sconfitta del Bjp nella regione bengalese, i vincitori del Trinamool Congress che appartengono a un’area oggettivamente di destra, non possono sperare di pesare sulla scena nazionale. Localmente, cioè in uno Stato che coi suoi 96 milioni di abitanti è fra i più popolati della Federazione indiana, questo partito è considerato soprattutto la bestia nera del marxismo che nel territorio ha espresso intellettuali e personaggi di cultura. Gli attivisti del Trinamool si godono un successo che umilia l’ottica tradizionalista e machista di Modi costretto a subìre uno smacco personale da una donna, pur navigata come Benerjee. E’ duro da digerire anche il vitalismo con cui l’indomita avversaria, oggi sessantaseienne, ha proseguito la campagna elettorale su una sedia a rotelle per un infortunio occorsole durante un comizio. Sarebbe stato meglio che il Bjp, intenzionato a risalire la china in quella zona del Paese, non avesse esposto il Primo Ministro, poiché perdere il 30% di preferenze rispetto alle politiche di due anni fa con Modi impegnato nei raduni piazza, oggi criticatissimi, costituisce un palese boomerang. Da Delhi, velata dai roghi delle pire, i think tank di governo sostengono che la massa hindu dimenticherà questa sconfitta. I tre anni dalle prossime elezioni possono essere riempiti di grandezze da rilanciare sui tavoli del G20, nei consessi della geopolitica mondiale dove Modi è invitato come attore di peso. Però il racconto di un’India ‘fabbrica e farmacia del mondo’, che dunque lo sostiene e soccorre, è soffocata dalla carenza d’ossigeno quintessenza del disastro sanitario. Bisognerà vedere quanto durerà la crisi. Se dovesse prolungarsi, le stragi pandemiche potranno condizionare il collante del nazionalismo religioso e squilibrare quella che è stata definita l’ipnosi del consenso indiano. 

 

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