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mercoledì 12 maggio 2021

Palestina, una storia con troppi nemici

La politica estera della Casa Bianca che, col verbo dell’amministrazione Biden, s’impegna ad adottare un approccio di difesa dei diritti nelle controversie internazionali mostra un fiato cortissimo nella crisi israelo-palestinese di questi giorni. Sia sulla Spianata delle Moschee, ridotta a un campo di battaglia e ancor più sulla Striscia di Gaza ridiventata bersaglio dei raid aerei dell’Idf. Ci sono anche i razzi lanciati sul territorio israeliano,  finanche su Tel Aviv - alcune fonti dicono un migliaio - che hanno provocato una terza vittima, dopo le due donne colpite ad Ashkelon, mentre cinquantatré risultano finora i cittadini arabi morti nell’escalation militare che ha tutta l’aria di rinverdire le campagne di sangue degli ultimi dodici anni, da Piombo fuso del 2009 al Margine di Protezione del 2014. E mentre Hamas, direttamente colpita nella Striscia sia con l’uccisione mirata di tre responsabili più l’abbattimento d’un grande edificio di sua giurisdizione, e la Jihad islamica si scambiamo col premier Netanyahu accuse e minacce su chi pagherà di più nelle prossime ore, nel dramma e nella morte già fioccano le denominazioni: Guardiani delle mura la chiama Tel Aviv, Spada di Gerusalemme rispondono da Gaza,  da Oltreoceano non giungono segnali di contenimento d’un contrasto che già scivola in aperta offensiva. Israele muove truppe sui confini e richiama oltre cinquemila riservisti. Anche perché in alcuni centri dove la convivenza con gli arabo-israeliani si snodava senza contrasti, la litigiosità è deflagrata in base alla virulenza di questi giorni: a Lod, a sud di Tel Aviv, la cittadinanza palestinese ha dato alle fiamme sinagoghe e auto. Stavolta la popolazione d’Israele non osserva in tivù quel che compie Tsahal alle vite degli altri, vede la propria vita in pericolo, ovviamente non su tutto il suo territorio.

A un Biden meditabondo o assai più in attesa di mosse internazionali, soprattutto russe e turche visto che quei due capi di Stato si confrontano su questa crisi, sopperiscono suoi subalterni, ad esempio Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, che si confronta con l’omologo israeliano. Più che altro per sostenere la linea della difesa degli storici alleati. Nessuna parola sui blandi tentativi dell’Onu di ripristinare la calma, anche perché proprio gli Stati Uniti stanno prendendo tempo e per ora impediscono la formulazione di testi e risoluzioni. L’attuale ambiguità non stupisce di certo, è una posizione adottata da decenni con le più svariate amministrazioni sempre unite nell’avallare l’occupazione illegale di Gerusalemme nel 1967, l’annessione di fatto del 1980, fino ai passi ampiamente provocatori del 2017 col riconoscimento della Città Santa quale capitale d’Israele. Certo, gli ultimissimi voltafaccia delle più occidentali fra le nazioni arabe firmatarie del cosiddetto ‘Accordo di Abramo’, hanno posto una pietra tombale sull’annosa rivendicazione d’uno Stato Palestinese, promesso, concesso per modo di dire a Oslo, e scippato dalla prosecuzione delle occupazioni illegali dei coloni, proseguite ora col parossistico sfratto da Sheikh Jarrah. Think tank democratici che in questi giorni osservano e, magari, commentano col solito buonismo di ritorno le fiammate di violenza nei luoghi, anche quelli di preghiera, dove i palestinesi sono ghettizzati, sostengono che occorre lavorare per isolare e prevenire violenze. Eppure da oltre un decennio le contraddizioni - palesi, stridenti - nella Cisgiordania occupata e nella Striscia martoriata non solo dal fuoco aereo, ma dall’embargo terrestre, sono rimaste inalterate. Quindi hanno incrementato la frustrazione sociale e civile d’un popolo ridotto a servitù dal fanatismo dell’ultradestra israeliana ormai padrona d’uno scenario politico incistato dal non  senso d’un sistema che gode della discriminazione imposta a cittadini piegati dall’apartheid. Egualmente la casta politica palestinese congela presente e futuro (le elezioni rimandate ancora una volta sono l’ennesima prova), davanti ai falsi fratelli del mondo arabo avvelenatori di pozzi e al cinismo geopolitico internazionale. E il cerchio appare tragicamente chiuso.  

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