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lunedì 8 marzo 2021

Kurdistan, l’angolo di terra delle senza nome

A Sulaymaniyah, 120 chilometri a sud-est di Erbil, nella terra visitata in questi giorni dal Santo Padre che prima d’essere caldea, cattolica, yazita, zoroastriana, sunnita, sciita è soprattutto maschile, c’è un cimitero. Non raccoglie vite spezzate dalla recente furia dell’Isis, né quelle di precedenti guerre fra religioni e nazioni. E’ seminata di lapidi ignote, scorze di pietra senza neanche un nome, eppure memoria di donne spazzate via in tenera età. Su quelle pietre non c’è identità perché i maschi di casa se ne vergognano e per i maschi omicidi quelle persone non esistono. In genere sono altre donne, madri, sorelle, nonne ad avvolgere in un sudario quel che resta di quindicenni distrutte dall’ipotetico sposo – vecchio o giovane che fosse – cui erano promesse e al quale si sono opposte. Ribellandosi al sistema della vendita familiare attraverso il matrimonio, usanza tribale che prosegue imperitura nel tempo. Qualsiasi denuncia, allo Stato che non c’è, a divise ufficiali e ufficiose, ha sempre a che fare con figure maschili che annotano e nulla fanno, men che meno inseguire e perseguire propri simili autori del misfatto.

 

Quell’angolo della memoria racchiude frammenti di lutto e dolore, che le fedi vagamente condannano e le comunità da esse ispirate non fanno propri perché non estirpano la fonte di quella miseria. Uno scempio universale, senz’altro, non racchiuso in quell’angolo di Kurdistan iracheno. E purtroppo presente nel femminicidio diffuso che il mondo maschile perpetua a Oriente e Occidente con pari calcolata ferocia e con scarsa rispondenza di giustizia, visto l’iper garantismo che troppe efferate azioni ricevono da certi sistemi legali. Pronti a imbavagliare e incarcerare per reati di pensiero e permissivi verso crimini di genere come lo sono coi criminali di guerra. E’ la stessa società maschia che spaccia per difesa e sicurezza l’aggressione a inermi civili, quella che minimizza e scagiona stupratori e sgozzatori di donne e bambini. Anche gli sgozzatori democratici che non sventolano la bandiera nera, che vivono a New York e Parigi, che passeggiano fra l’arte di Roma e Vienna. Che abitano nelle case delle proprie vittime, che le hanno sposate legalmente, senza forzature, ma a un certo punto decidono di forzarne l’esistenza.

 

Così dai “crimini d’onore”, come tuttora li definiscono in un pezzo del Sud del mondo cui appartiene la regione del Kurdistan, come li definiva anche la legge nostrana che solamente quarant’anni fa decise di bollare simili nefandezze quali reati, senza peraltro riuscire a fermare la mano omicida che continua a muovere “uomini d’onore”. Mica solo “zingari ed extracomunitari” che i fautori dell’ordine sempre additano a rei. Bensì mariti, fidanzati, compagni, parenti che spengono sorrisi col machete di casa, la pistola d’ordinanza, la tanichetta di carburante. Perché quella “cosa nostra” che è la femmina agguantata in una relazione benedetta da una funzione o anche no, resta oggetto di desiderio, qualunque sia, pure dettato dalla licenza d’uccidere. Si può uccidere con estrema leggerezza nella società delle cose e delle relazioni fatue. La maturità sociale, la democrazia, il relativo benessere dovrebbero contenere pulsioni, sminuire fobie. Invece incentivano potere e violenza e si perpetua la smania di possesso,  di dominio e l’onnipotenza omicida maschile. Da noi le vittime avranno magari una lapide, ma l’obiettivo è stroncare la maledetta stirpe degli assassini.

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