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mercoledì 9 dicembre 2020

Sisi, il cliente-alleato dell’affarismo francese

A chi si stupisce davanti ai quasi abbracci al tempo del Covid fra presidenti, il democratico francese Macron e lo spietato egiziano Al Sisi, accolto in pompa magna all’Eliseo, occorre ricordare quali strade incrocino gli interessi e gli affari dei due Paesi. Mediterranei, come molti altri sulla sponda europea, africana e mediorientale, ma più d’altri proiettati in questo mare e nella prospiciente area. La geoeconomia e geopolitica di Parigi e del Cairo hanno trovato un “cordiale accordo”  su un piano che lega i due terreni, già normalmente assai intrecciati. Da qualche anno la Francia è diventata il primo esportatore d’armi dell’Unione Europea, ed è l’unica potenza continentale in grado di svilupparne autonomamente ogni tipologia, per combattimenti di terra, mare, aria con missili e anche testate nucleari. L’Egitto, servendosi degli organi di sicurezza (forze armate, polizia, servizi segreti), della magistratura, dello stesso Parlamento, che legifera la sospensione delle libertà personali per chi è sospettato di “trame contro lo Stato”, sta sperimentando un modello che può essere esportato in un’area da un decennio percorsa da ribellioni popolari. In più nel ridisegno della regione, l’uomo d’ordine incarnato dal presidente Al Sisi è stato investito del ruolo di alleato per Paesi amici del mondo arabo con velleità egemoniche sul vicino Medio Oriente, qual è l’Arabia Saudita. E di cliente-alleato cui riversare la “pregiata merce” di cui Parigi è divenuta esportatrice di spicco, per ricevere in cambio non solo denaro, ma favori geostrategici. Dieci anni fa le forniture d’armi acquistate dall’Egitto in terra francese ammontavano a 40 milioni di euro (molto più copioso era il pacchetto proveniente dagli Stati Uniti).

Dall’avvento di Sisi l’aria e il partenariato mercantile sono mutati. 800 milioni di euro sono stati spesi dal Cairo nel 2014, 1,2 miliardi nel 2015, nel 2016 1,3 sempre a vantaggio del mercato parigino che coi presidenti Sarkozy, Hollande e Macron ha fatto passi da gigante. Nel 2019 la cifra diventa straordinaria: 14 miliardi, spesi fra navi da guerra Mistral, fregate Fremm, cannoniere Gowind, aerei da combattimento Rafale, missili aria-aria Mica e missili da crociera Scalp. E poi armi leggere della ditta Manurhin e veicoli corazzati della Renault Defense per contrastare le manifestazioni di piazza. Quindi attrezzature di sorveglianza, prodotte da Idemia e Thales, per tenere d’occhio chiunque possa poi essere accusato di “attentato alla sicurezza nazionale e terrorismo” quali l’ong Iniziativa egiziana per i diritti personali e giovani come Patrick Zaki. La scalata armata del grande Paese arabo risponde in parte alle antiche manìe di grandezza della lobby che dal 1952 segna la vita del suo popolo, facendogli credere di difenderlo e ai nuovi equilibri che si prospettano, appunto, in un Mediterraneo e Medio Oriente da cui il “gendarme statunitense” si sta allontanando. Non un abbandono totale, una rimodulazione delle proprie strategie all’interno del quadro Nato e in collaborazione con attori locali. Fra costoro, a parte lo storico alleato israeliano, vengono assegnati ruoli centrali all’Arabia rimodernata dalla leadership di MbS, con gli annessi emirati del petrolio disponibili a collaborare (Emirati Arabi su tutti), e all’Egitto del presidente-generale. La Francia ha puntato sull’asse securitario nella Libia, da lei infuocata dieci anni or sono, con Al Sisi che poteva aiutare il signore della guerra Haftar.

Ma su quel fronte l’altro competitore agguerrito mediorientale, Erdoğan, sembra giocare una partita più favorevole, nei cieli, dove sguinzaglia i micidiali droni Bayraktar, e nel bacino orientale di cui rivendica diritti di scandaglio anche in partnership col governo libico a sostegno del progetto nazionalista denominato ‘Mavi vatan’. L’Egitto iper militarizzato ha dato fondo a quelle risorse che non investe per migliorare la condizione sociale della sua gente, finita per oltre la metà sotto la soglia di povertà, per la creazione dell’hub della sicurezza: la base aereo-navale Berenice, sul Mar Rosso, quasi al confine dell’infido Sudan. Gli è partner l’Arabia Saudita compagna di addestramenti navali con la supervisione francese (ecco che i coinvolgimenti riappaiono). Parigi vende navi e arei da guerra al Cairo e mira a usarlo come cane da guardia sull’altro mare che interessa lo stesso Paese arabo, dove s’incrociano sia gli affari energetici, con lo sfruttamento dei giacimenti di gas che riguardano due Stati falliti (Libia e Libano) su cui la politica estera francese vuole mettere le mani, sia una presenza prestante, e dunque armata, per quelle nazioni deboli (Grecia, Cipro) bisognose di protezione dalle ingerenze turche e russe. Poiché Riyadh e Il Cairo risultano alleati-competitori, perseguendo intenti comuni sulla sicurezza nelle travagliate zone del Mar Rosso e del Sinai, Parigi carezza, lusinga e aiuta il soggetto meno solvente, del quale è più semplice acquisire la disponibilità. E tutto procede in barba a qualsiasi ideale di libertà, di diritti personali e collettivi ad esempio. Che se dovesse venir sollecitato da chi su quel terreno osasse alzare la voce, un ipotetico governo italiano, con cui Sisi gestisce l’affare del metano di Zhor, potrebbe veder sostituire l’azienda italianissima impegnata nell’estrazione (Eni) con la concorrente Total e…  les jeux sont faits.

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