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martedì 6 ottobre 2020

Nagorno Karabakh, il giardino montuoso conteso

I venti di guerra tornati a soffiare su quel lembo di terra che è il Nagorno Karabakh, enclave armena in terra azera, mettendo l’una contro l’altra nazioni nate dalla polvere dell’Urss, sono alimentati da un irrisolto lungo quasi trent’anni. Ma le contraddizioni sono più antiche. Le vivono genti radicate da secoli in certi luoghi non esenti da passaggi truppe, imperi, persecuzioni, deportazioni, decisioni burocratiche e giri di valzer. Uno, clamoroso, fu fatto il 3 luglio 1921 dal Kavbiuro della neonata Unione Sovietica. Con lo scarto d’un voto (4-3) si decise che la regione del Karabakh - autoproclamatasi indipendente alla stregua del Nakhichevan e Zangezur (poi Syunik) - venisse assegnata alla Repubblica Sovietica dell’Armenia. Pareva logico: era in gran parte abitata da armeni. Ma dopo neppure quaranttott’ore: contr’ordine compagni! Il Kavbiuro rigirò la decisione e l’area passò alla Repubblica Sovietica Azera. La motivazione messa agli atti sosteneva una “necessità di armonia nazionale fra musulmani e armeni, con collegamento economico fra Karabakh superiore e inferiore e i suoi legami permanenti con l’Azerbaijan”. Commissario del popolo per le nazionalità era un giovane Josef Stalin ma, a detta di alcuni storici armeni, sulla decisione mise il suo carico Nariman Narimanov, presidente del Comitato rivoluzionario azero e molto considerato dai vertici bolscevichi. Eppure a brigare con lo sfaldamento di alcuni imperi, innanzitutto quello Ottomano, e pasticciare su terre e popolazioni c’erano anche altre potenze. Per il Caucaso soprattutto la Gran Bretagna, già responsabile insieme alla Francia del ridisegno del Medioriente sancito, nel 1916, dal patto Sykes-Picot. Certo, fino alla durata del potere sovietico tutto rimase congelato, anzi consistenti minoranze delle due etnìe erano presenti nell’altra Repubblica. Lo dimostra il numero dei profughi a conclusione del conflitto fra Armenia e Azerbaijan scoppiato nel gennaio 1992, dopo la proclamazione della Repubblica del Nagorno Karabakh, e durato fino al ‘94.
Una guerra su cui pesano trentamila vittime, in gran parte civili, ottantamila feriti, circa un milione di profughi quasi tutti lavoratori e loro familiari (quattrocentomila armeni residenti in Azerbaijan e mezzo milione di azeri presenti in Armenia, che rientrarono nelle rispettive nazioni o ripararono altrove). Offrendo altre cifre, ricordiamo che l’attuale popolazione armena ammonta a tre milioni, sebbene si conti una diaspora di otto milioni con un’elevata presenza negli Usa e in Francia. Gli azeri sfiorano i dieci milioni. Il Nagorno Karabakh conta centoquarantamila anime. La fase post bellica, gestita dalla Conferenza di Sicurezza e Cooperazione in Europa - al di là di tenere sotto controllo le contrapposizioni armate di frontiera, spesso con scarsi risultati viste le violazioni - non ottenne oltre. Del resto il territorio, che la stessa denominazione definisce montuoso e una più poetica 'giardino montuoso', è privo d’interesse strategico per quei padrini che, ai tempi del conflitto e maggiormente ora, s’interessano delle sorti dell’enclave. L’area è zeppa di contraddizioni. Fra l’Armenia e l’Iran è collocata la Repubblica autonoma di Naxçıvan, un’exclave azera in territorio armeno, dove vivono mezzo milione di persone. Se si volesse dare omogeneità etnica, quest’ultime dovrebbero collocarsi più a est nel Nagorno al posto di quegli abitanti che potrebbero sostituirli. Ma simili follìe, peraltro già provate dalla Storia con deportazioni e stragi, sono (o dovrebbero essere) fuori dal tempo. Mappe geografiche e confini  tracciati col righello hanno già caratterizzato epoche recenti, producendone guasti e instabilità. Gli attuali conflitti locali rappresentano una conseguenza di simili tendenze e tuttora costituiscono la modalità con cui potenze mondiali e regionali cercano d’imporre decisioni internazionali, noncuranti di etnìe e comunità. I due leader che osservano, dibattono e possono far pesare decisioni sulla nuova crepa nel Karabakh - Erdoğan a favore del presiedente azero Aliyev, Putin a vantaggio dell’omologo armeno Sarkissian - da tempo gestiscono la crisi mediorientale in Siria e Libia, passando per il Mediterraneo orientale.
Adesso potrebbero misurarsi per procura sul territorio caucasico. Ma quanto visto in questi anni sugli scenari delle citate nazioni diventate liquide, lì dove gli eserciti russo e turco si sono mossi, ha rappresentato un segnale più che scontri aperti. Un segno  autoreferenziale per le rispettive leadership. L’impatto militare di Mosca risulta pesante anche per Forze Armate determinate come quelle della mezzaluna anatolica, che è pur sempre il secondo esercito Nato del mondo. Eppure, nonostante le difficoltà economiche interne, l’industria bellica di Ankara ha mostrato l’efficacia di alcuni suoi ‘gioielli’: i droni dell’industriale di casa Selçuk Bayraktar, genero del presidente, che in Libia hanno umiliato i mercenari russi del Wagner Group, sino a decretarne il ritiro. Egualmente i prototipi della cantieristica militare - le fregate Gabya, la nuova tipologia T2000, l’unità d’assalto Anadolou - offrono “argomenti” di supporto al grido mediterraneo della “Patria blu”. Di fatto i nazionalismi che i due nemici diventati amici propongono possono pure fronteggiarsi nel mestiere delle armi, ma hanno trovato dialogo e convergenza d’intenti sul terreno geostrategico ed economico-finanziario. Quest’ultimo non esclude, anzi integra il precedente. Basti ricordare le batterie di missili antiaerei S-400, già consegnate fra il 2019 e l’anno in corso, che tanto hanno fatto fibrillare Pentagono e Casa Bianca perché squilibrano i protocolli interni Nato e le commesse statunitensi. Inoltre il piano turco di diventare un hub energetico fra i continenti europeo e asiatico, ha trovato con le pipeline Blue Stream e Turk Stream il sostegno interessato di Mosca. Erdoğan e Putin paiono troppo legati da reciproci interessi per incrinare il rapporto attorno all’incompiuta del Karabakh. In queste ore ciascuno s’erge a paladino d’una comunità contrapposta all’altra, ma entrambi lo fanno per ribadire il tono internazionale che si sono creati. Difficilmente i veri signori del Caucaso litigheranno per un ‘giardino montuoso’. L’incompiuta è destinata a trascinarsi nel tempo con lo scorno degli abitanti.

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