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venerdì 10 aprile 2020

Afghanistan, arresti e liberazioni


C’è fermento in questi giorni nelle carceri afghane per l’annosa questione del rilascio dei detenuti talebani e per l’arrivo d’un prigioniero eccellente. Mercoledì il governo Ghani ha deciso unilateralmente la scarcerazione di cento miliziani reclusi, come gesto di buona volontà sulla questione delle 5000 liberazioni assicurate dall’accordo di Doha fra la delegazione dei turbanti e quella statunitense. Com’è noto i rappresentanti di Kabul, che hanno subìto quell’accordo però detengono le chiavi delle prigioni, affermano di voler liberare gradualmente i miliziani. Il mullah Baradar, che ha firmato l’accordo al cospetto di Khalilzad e molto s’è speso per moderare la Shura di Quetta, è infuriato. I suoi collaboratori accusano il governo Ghani di praticare tatticismi volti a perdere tempo per entrare in una partita che l’aveva visto escluso. Quest’ultimo, pur avendo problemi interni per la reiterata rivalità con Abdullah che s’è nominato antipresidente, sostiene la necessità di verificare l’identità e la tipologia dei soggetti da rilasciare. In tal modo scontenta anche il padrone americano, che col Segretario di Stato Pompeo ha già annunciato una sanzione verso Kabul tagliando un miliardo di dollari d’aiuti previsti per l’anno in corso. In più col frazionamento delle scarcerazioni i minimi approcci fra talebani e amministrazione Ghani minacciano di deragliare del tutto.
Subito dopo il rilascio dei cento miliziani un portavoce talebano ha annunciato un blocco del processo di scambio (anche i turbanti dovrebbero consegnare dei soldati afghani fatti prigionieri), poiché sebbene i nominativi fossero frutto d’un patteggiamento fra le parti, mancano una quindicina di nomi indicati dai turbanti. Kabul risponde che la lista ha seguito criteri stabiliti per età, condizioni di salute, consistenza della pena. Insomma visioni di parte e criteri assolutamente differenti. Tutto ciò si riversa su un terreno che dopo un mese (l’accordo di Doha prevedeva la liberazione dalla prima settimana di marzo) riprende a diventare accidentato su altri due questioni salienti: ritiro delle truppe Nato e cessate il fuoco. Per la tensione in atto non s’è visto alcun preparativo di rientro di militari americani. Anzi, poiché si sono verificati diversi episodi di scontro fra taliban e Afghan Security Forces, con morti da ambo le parti, l’esercito statunitense resta nella basi. E se ha interrotto pericolose azioni di terra, si ritrova spesso a sostenere con bombardamenti aerei l’alleato afghano, che sul terreno non regge lo scontro coi guerriglieri. Chi, invece, è entrato nelle galere afghane è nientemeno che il leader dell’Iskp (Stato Islamico del Khorasan) Aslam Farooqi, da poco arrestato con un gruppo di fedelissimi durante un’operazione di Intelligence svoltasi in un’area afgana.
L’uomo è accusato d’aver diretto l’attacco al tempio sikh nella Kabul vecchia che è costato la vita a venticinque persone. Alla sua detenzione s’è mostrata interessatissima anche Islamabad, che ha contatto l’ambasciatore afghano presente nella capitale per chiederne l’estradizione, visto che Farooqi è accusato di terrorismo per attentati compiuti dal cosiddetto Stato Islamico del Khorasan anche in alcune province pakistane. Lì dal 2007 operava la frangia dissidente dei Teerik–i Taliban, che hanno gruppi nei territori delle Fata, nel Waziristan settentrionale e nel Punjab, e si sono distinti per azioni cruente rivolte alla popolazione e vendette contro l’esercito, tristemente nota nel 2014 la strage nella scuola di Peshawar frequentata da figli di militari pakistani. Negli ultimi tre anni in Afghanistan l’Iskp ha ingaggiato un confronto a suon di attentati coi talebani ortodossi per dimostrare la sua forza militare e un radicamento nel territorio. Dopo l’arresto di Farooqi, e la richiesta di estradizione da parte pakistana, su certa stampa filogovernativa indiana è apparsa l’insinuazione che quel Paese volesse il terrorista per chissà quale iniziativa benevola nei suoi confronti. Ne è seguita una nota sdegnata di Islamabad che ha bollato come “maliziosa e condannabile” l’insinuazione. Ma nelle note avvelenate che s’intrecciano, il passato racconta che fra Isi (l’Intelligence pakistana) e Isil locale (compresi i taliban dissidenti) ci sia stata una vicinanza non solo di acronimìa, che peraltro può proseguire.

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