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venerdì 31 gennaio 2020

Rapporto Sigar, Afghanistan più violento


Quattro sezioni più l’appendice. Con un documento di duecentoventi pagine l’Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) lancia l’ennesimo allarme. Per chi non lo conoscesse quest’organismo, creato nel 2008 dal Congresso statunitense, mira a “fornire una supervisione indipendente e obiettiva dei fondi destinati alla ricostruzione” (questo almeno lo scopo dichiarato) nel Paese occupato dalle sue truppe. Il rapporto di fine gennaio, esaminando la situazione in 30 province (ne sono rimaste escluse Sar-e Pul, Samangan a nord, Nuristan a est, Daykundi al centro) afferma come negli ultimi tre mesi del 2019 le azioni violente sono ampiamente aumentate rispetto all’ultimo decennio: 8.204 attacchi, rivolti a obiettivi militari e civili, da parte dei reparti americani e delle milizie talebane. Tutto ciò mentre restavano aperti i cosiddetti accordi di pace. In realtà, e questa è una concreta spiegazione dell’incremento delle azioni belliche, nessuno dei due fronti accetta le proposte dell’avversario: da parte statunitense l’inserimento nelle trattive dei governanti di Kabul, da parte talebana l’immediata attuazione del ritiro di tutti i militari presenti sul territorio afghano. Perciò il tavolo di pace langue mentre le bocche di fuoco seminano morte. Il supervisore degli incontri, avvenuti a Doha e a Mosca, l’afghano-statunitense Zalmay Khalilzad, non è riuscito a far recedere nessuno da prese di posizioni considerate irrinunciabili.
Poi è sopravvenuto il gestaccio di Trump di bloccare gli incontri, da cui è scaturito un ritorno al conflitto da parte talebana, con conseguenti ritorsioni e caccia all’uomo di marines e contractors, quest’ultimi ormai più numerosi dei primi. Sebbene i mercenari americani siano in gran parte ex militari, magari già utilizzati in loco, per loro è cambiata la divisa non i comandi sempre coordinati da Pentagono e Cia. Proprio lo scorso settembre, in cui si sono svolte le elezioni e il cui risultato è rimasto oscurato a lungo, con conteggi e riconteggi, i turbanti hanno dato fondo a una ripresa delle guerriglia. Quelle azioni dicevano: la classe politica che Washington propone e impone per noi non ha alcun valore. I politici in questione sono gli stessi che governano il Paese dal 2014: Ghani e Abdullah, che si sono ridivisi le preferenze. La recente consultazione, cui ha partecipato il 10% degli elettori, ha fatto segnare 920.000 voti all’ex presidente e 720.000 all’ex premier, rilanciando la spartizione di ruoli e potere creata cinque anni fa. Tranne poi sentirsi accusati, e non solo dai concorrenti tagliati fuori dalla corsa, dei soliti brogli. Perciò sembra un mantra conosciuto il capitolo del rapporto che parla della corruzione, nella quale, sia detto o meno, è coinvolta quella politica che la Casa Bianca ha promosso dai tempi di Bush jr e Obama, prima con Karzai quindi con la diarchia Ghani-Abdullah.
Nulla di nuovo nel modello ritrito e ormai stantìo con cui si cerca di mascherare un’occupazione, che potrebbe continuare anche col ritiro militare. E i capitoli che trattano le cosiddette “donazioni”, i fondi stanziati per la mai realizzata ricostruzione del Paese, possono avere letture ben differenti dagli allarmi che sollevano. La citata corruzione che - e l’abbiamo visto per oltre un decennio - lega le massime autorità al doppio filo dell’eversione politica e delle ruberie. Come definire altrimenti durante la “reggenza” Karzai, gli scandali di Kabul Bank in cui erano coinvolti suoi sodali? E gli affari di traffico d’oppio del clan di famiglia, con un fratello rimasto ucciso nelle faide con altri clan che godevano del business dell’eroina? Tutto con la protezione, interessata per ragioni di denaro, di signori della guerra (Fahim, Khalili) collocati in alte cariche statali, allora come poi è avvenuto con Dostum. Niente cambia sotto l’ombra dell’Hindu Kush, e quelle tre generazioni di afghani che hanno cosciuto solo guerra e morte, per sfuggire a questi eventi continuano a fuggire nelle rotte migranti diffuse ovunque nel mondo. E francamente non possono che risultare stonate le note delle pagine del documento Sigar che sostengono come “la pazienza statunitense e di altri donatori sta svanendo”. Il filo rosso che lega certe donazioni è un tutt’uno col sistema politico promosso che vive esclusivamente di corruzione e soprusi. Ed è purtroppo un filo rosso di sangue che vede molti colpevoli, portatori di armi o di denaro. 

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