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venerdì 10 gennaio 2020

Afghanistan, droni assassini e Resolute Support


Colpito, esploso, bruciato. Ieri un leader talebano è finito come il generale Soleimani, disintegrato da un drone statunitense nella provincia occidentale afghana di Herat. Si chiamava Nangyalay, era un mullah. Ma un deputato del Consiglio provinciale ha ricordato che nell’azione “mirata” sono rimasti uccisi anche sessanta civili. Si registra anche un numero imprecisato di feriti. I missili lanciati sono stati numerosi e hanno investito l’area abitata di Shindand. Il capo talib ucciso apparteneva alla fazione del mullah Rasool. L’operazione rientra nelle iniziative della missione Resolute Support che ha cinque anni di vita e con cui la coalizione Nato presente sul territorio sostiene di “contribuire ad addestramento, assistenza e consulenza delle Istituzioni e delle Forze di Sicurezza afghane, al fine di facilitare le condizioni per la creazione di uno stato di diritto, Istituzioni credibili e trasparenti e, soprattutto, di Forze di Sicurezza autonome e ben equipaggiate, in grado di assumersi autonomamente il compito di garantire la sicurezza del Paese e dei propri cittadini”. Queste intenzioni sono naufragate da tempo. Il rendimento sul campo dell’Afghan National Army, nonostante il reclutamento che ha raggiunto picchi portando il numero dei militari a 350.000 unità, è sempre risultato scarso.
Nelle azioni di conflitto aperto - come gli attacchi talebani che nel 2016 hanno prodotto la presa della città di Kunduz, ripetuta anche nella scorsa estate, o la sequela di attentati anche nelle aree più controllate della capitale - ha visto i reparti afghani impreparati e inefficienti. C’è da pensare che il Resolute Support costituisca l’alibi con cui gli Stati Uniti continuano la propria presenza militare nel Paese, dove sono state approntate undici basi aeree di controllo e attacco, appunto coi droni, verso l’intera regione. Di rimando c’è il coinvolgimento degli alleati Nato per iniziative improntate al solo vantaggio geostrategico statunitense. Attualmente 41 nazioni, contribuiscono coi propri soldati alla missione che conta attorno alle 16.000 unità. L’Italia è presente con 900 fra ufficiali e sottufficiali della Brigata aeromobile Friuli, dell’Aeronautica e Marina e dei Carabinieri. 148 i mezzi terrestri più 8 aerei dislocati fra Kabul e appunto la zona di Herat. Ed è attiva anche in quelle operazioni di controguerriglia contrassegnate dalle cosiddette Task Force numerate. Quest’ultime dirette esclusivamente da comandi statunitensi, in alcuni casi neppure della US Army, ma dai vertici della Cia, vengono rivolte negli ultimi tempi contro i miliziani dell’Isis e i taliban.
Ma ci son stati diversi episodi in cui gli “obiettivi” erano civili definiti combattenti. Nel settembre 2010 il tenente, post mortem capitano, Alessandro Romani, incursore parà del ‘Col Moschin’, impiegato nella ‘Task Force 45’ rimase ucciso in un’azione in corso nella provincia di Herat (a Bakawah) rivolta alla cattura di presunti terroristi. Quest’ultimi mutano identità nel testo che ha accompagnato la motivazione del conferimento d’una medaglia d’oro alla memoria da parte dell’Esercito Italiano “… nel tentativo di catturare degli insorti intenti a posizionare un ordigno esplosivo sul ciglio della strada…”. Lo scorso anno cinque militari italiani sono stati protagonisti di un avvenimento non letale per loro, ma egualmente tragico per le ferite e le conseguenti amputazioni che i militari hanno dovuto subire. Si trattava sempre di incursori, inseriti in una Task Force, numero 44, di cui lo Stato Maggiore italiano e gran parte della stampa mainstrem hanno celato la vera dinamica. Il reparto venne colpito da un ordigno esplosivo non nel corso d’un pattugliamento, bensì durante la caccia a miliziani dell’Isis. Un’azione di guerra come le molteplici compiute dalle truppe del Resolute Support. Un risoluto sostegno alla guerra. 

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