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lunedì 9 dicembre 2019

Erdoğan, la guerra delle università


Nella Turchia erdoğaniana il modello universitario ‘Şehir’ ha incarnato, dalla data della sua nascita (2010), il progetto di spezzare il dominio secolare nel mondo accademico. Lo fa con organismi d’eccellenza che provvedono alla formazione di giovani studenti, futura classe dirigente, d’un Paese che a maggioranza si riconosce nel disegno politico islamico. Oggi la prestigiosa sede di Istanbul, e altre filiali, rischiano la chiusura lasciando orfani settemila studenti, parecchi stranieri, che ne seguono i corsi. C’è, infatti, un blocco finanziario disposto dalla Corte di giustizia dopo che la banca statale Halkbank ha congelato un credito di 70 milioni di dollari destinati al sistema universitario, che si ritrova nell’impossibilità di pagare stipendi ai docenti e finanziare attività amministrative e didattiche. Una sorta di bancarotta. Il progetto ‘Şehir’ era partorito dalla mente di Ahmet Davutoğlu, professore emerito e all’epoca teorico della linea neo ottomana che trovava spazio nella geopolitica turca grazie al suo ruolo di ministro degli Esteri. Davutoğlu era talmente prossimo a Erdoğan da esserne considerato il braccio destro e suggeritore creativo, finì per diventare premier nel 2014 (fino al 2016) quando il capo dava la scalata alla presidenza del Paese. A un tratto fra i due è sceso il gelo. Era il momento successivo al tentativo di golpe, da cui scaturirono: la caccia ai gülenisti, la grande epurazione, la lotta senza quartiere a oppositori, kurdi, giornalisti, uomini di cultura, fino alle recenti guerre aperte. Davutoğlu si sfilò da un panorama che definire battagliero è sminuirlo di molto e recentemente è anche uscito dal partito di governo, l’Akp, di cui era un esponente di spicco. Ma vista l’esperienza, il fiuto, la passione, gli interessi, un pensionamento pubblico a 59 anni gli stava stretto. Così gli è brillata la folle idea di formare un proprio gruppo da contrapporre nientemeno che al partito-Stato del presidente. L’uomo che si sente sultano, probabilmente anche per le teorizzazioni del professore.

Quest’ultimo, fra l’altro non è il solo ex a tentare la sortita politica. Anche un altro ministro (dell’Economia) e membro dell’Akp, Ali Babacan, dopo aver lasciato la casa-madre islamica ha creato un suo raggruppamento, seppure per ora stando attento a non contrapporlo frontalmente al potere erdoğaniano. Eppure secondo i pochi commentatori interni alle cose turche rimasti fedeli al proprio senso critico, e soprattutto rimasti in condizione di poterlo esprimere, quel che accade all’università Şehir è l’ennesima imboscata da parte del potentissimo presidente, un uomo vendicativo che non ammette separazioni e dissensi politici. Una sua accusa alla rete Şehir (sistema comunque non capillare come l’Hizmet di Fethullah Gülen, ormai del tutto smantellato dalla repressione) parla di un’operazione volta a defraudare le casse di Halkbank, avviata con un decreto di Davutoğlu che ora si serve dell’università per fini politici. L’ex premier rigetta le accuse definendole senza prove e chiede trasparenza finanziaria generalizzata sulle ricchezze personali di presidenti e ministri, attuali ed ex. Ovviamente lui compreso che, a suo dire, non ha nulla da celare. Allo scontro a tutto campo fra figure di primo piano della politica nazionale fa da contraltare la condizione dei colpiti, studenti e docenti, che protestano ma temono per il futuro, anche perché finora le loro grida hanno percorso solo i social, quasi nulla sanno i turchi dai media nazionali controllati dal governo. Probabilmente il controllo governativo passerà anche su questa struttura che se non chiuderà - sarebbe assurdo vista la modernità di edifici, laboratori, biblioteche - passerà di gestione. Il Consiglio Superiore dell’Istruzione si sta già occupando del caso.

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