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sabato 30 novembre 2019

Iraq: piazza, sangue e Sistani fanno dimettere il premier


Dopo due mesi di proteste represse nel sangue di quattrocento vittime il discusso primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi lascia l’incarico. Lo fa a seguito della predica del venerdì della massima autorità sciita del Paese, l’anziano ayatollah Ali Sistani, che ha “suggerito” al Parlamento di riconsiderare quel mandato. Forse una spinta ulteriore giunge anche dal furore con cui gruppi di dimostranti il giorno precedente hanno assaltato e incendiato il consolato iraniano a Najaf. Una furia geopolitica della gioventù sunnita che non sopporta l’ingerenza dei consiglieri iraniani nei confronti d’un governo a trazione sciita. In realtà Mahdi non appartiene a quella cinghia di trasmissione che in passato aveva prodotto come guida nazionale al-Maliki. Mahdi avrebbe dovuto mediare e proporre riforme, ma ormai testimonianze lo indicano prigioniero di consiglieri cooptati direttamente da Teheran, con l’uomo di ferro iraniano, il generale Soleimani, a far da sponda fra le due nazioni per tutto l’anno in corso. Eppure, per ora, il timore d’una spaccatura etnico-confessionale deve aver percorso la mente di un’autorità che conta nella copiosa componente sciita della società irachena: Muqtada al-Sadr, che col suo partito sosteneva il governo. Sadr, dopo la prima settimana d’una protesta che portava in strada anche i suoi ragazzi, s’era smarcato dall’appoggio a un Esecutivo sempre più traballante che ha cercato prima il contenimento della piazza,  usando l’arma di promesse vaghe, poi è passato all’uso delle armi per conservare un potere contestato su più fronti. Quello economico delle carenze addirittura alimentari, oltre ai servizi e  al lavoro. Quello delle libertà personali e collettive praticamente inesistenti, congelate da una politica divisa fra clan e ingerenze di potenze regionali, fino all’utopistica speranza giovanile d’un domani diverso da quanto è invece rimasto bloccato dall’occupazione statunitense all’attuale caos, che da tempo costituisce l’elemento più apprezzato dagli Usa in Medio Oriente.  
Non era solo la componente sciita, organizzata nel partito Sairoon, a sostenere l’impasse incarnato da Mahdi; anche i kurdi dell’amministrazione regionale nel nord iracheno lo volevano. Sicuramente irretiti dalla promessa di risolvere a proprio favore la questione delle quote estrattive del petrolio e dei proventi delle vendite in quella parte del Paese. Ma dalla ricchezza del sottosuolo le finanze nazionali, da anni, non forniscono conforto ai molteplici bisogni della popolazione che vive stremata in un sistema corrotto. Parecchi analisti ribadiscono che trovare un’alternativa di premierato oggi appare  impossibile. Una delle soluzioni poteva essere indire nuove elezioni e vedere se uno dei blocchi politici più consistenti fosse uscito dai seggi con appoggi maggiori tanto da lanciare un governo forte. Però con le città in rivolta, e il rischio di scontri interconfessionali ed etnici, l’ipotesi tramonta. Le cronache hanno fatto notare che proprio le ripetute presenze del responsabile della sicurezza iraniana a Baghdad - da lui giustificate come supervisioni per la sicurezza del suo Stato, in effetti agitato da contestazioni nel mese di novembre - avevano incrementato la linea durissima del governo sui manifestanti. Con decine le uccisioni nei giorni scorsi, anche facendo uso di cecchini, proprio com’è accaduto in alcune località iraniane. Intanto impazzano notizie, mezze notizie, informazioni segrete che sono rimbalzate sino ai grandi media internazionali su operazioni giocate, ciascuno sul suo versante dai “tutori” della situazione irachena: l’Intelligence statunitense e quella iraniana. Entrambe in azione nel gestire a proprio favore l’orizzonte dintorno. Conservando il caos per Washington e orientando il vicino e un tempo nemico establishment di Baghdad verso una sorta di tutela da parte iraniana, un po’ come accade per la Siria. E prima che l’Iraq, che pure dal 2003 non conosce pace e ha vissuto in casa il dramma Daesh, non scivoli in un simile fratricidio. Ma si tratta di tutele pericolose, animate da interessi di parte. Quelli che ricorrono dalla caduta di Saddam Hussein, che in fatto di manipolazione e oppressione del popolo ne aveva fatte tante e sporche.

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