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venerdì 25 ottobre 2019

Libano in rivolta, uno schiaffo alla spartizione


Non è servito neppure il discorso in diretta televisiva del presidente della Repubblica Aoun, che pure incarna un pezzo della storia del Libano degli anni Ottanta, doppiamente difeso dall’invasione israeliana e dall’ingerenza siriana, oltre che dalle pratiche stragiste dei maroniti della famiglia Gemayel. Anche Aoun è maronita, ma nell’epoca in cui vestiva la divisa da generale s’è speso per l’unità del Paese dei cedri e per quest’unità ha lavorato dal 2005, dopo il rientro dall’esilio parigino durato quindici anni. Però sono i quindici anni successivi che le odierne piazze libanesi gli contestano, ponendolo alla berlina assieme al premier Hariri e alla trasversale unione politica che guida la nazione fra il compromesso e la cogestione. Contestati anche il Partito di Dio e Amal, due componenti che tanto si sono spese per la difesa del Libano dalle reiterate invasioni di Israele, ma che come le altre vivono reiterando il clanismo. Il filo conduttore della protesta, che ormai monta da nove giorni consecutivi e blocca ogni attività, è proprio il sistema proposto dai salvatori della patria  che usciva dalla guerra civile.

Un meccanismo basato sulla molteplice rappresentanza etnica che ha diviso le Istituzione come la logistica nella capitale: maroniti alla presidenza della Repubblica e a Beirut nord, sunniti alla guida del governo e a Beirut ovest, sciiti alla presidenza del Parlamento e nella cintura meridionale. Tutto per garantire la convivenza. Questo sistema delle appartenenze s’è trascinato dietro protezioni, padrinaggi, clientele per coloro che vanno in chiesa e in moschea e per chi non ci va. Un sistema totalizzante che però non include tutti, e che ora sta implodendo sia al cospetto e alle aspettative delle generazioni del dopoguerra, sia nella pazienza dei tanti tenuti buoni con lo spettro del passato - e sicuramente tremendo - conflitto civile che fece 150.000 vittime.  Come ciascun politico del mondo, leader pluridecennali che si chiamano appunto Aoun, Hariri, Berri, Jumblatt, Nasrallah una volta trovata la quadratura del cerchio hanno pensato che tutto sarebbe rimasto immobile. Invece devono fare i conti con la voglia di dinamismo in uno spazio vitale ristretto che alle contraddizioni già sedimentate (campi profughi, disoccupazione), aggiunge il malcontento per carovita, assenza di prospettive per chi non accetta la ‘protezione’ di quei clan politici che ormai la piazza definisce senza paura corrotti e mafiosi. Nei giorni scorsi qualcuno ha provato a intimorire i manifestanti: militanti di Amal, a Tiro, ne hanno strattonato e insultato alcuni, s’è anche parlato di aggressioni a colpi di bastone.

Poi nel partito devono aver compreso l’effetto controproducente del metodo squadrista e non ci sono stati altri episodi. Certo, ad Amal ed Hezbollah, i partiti patriottici, finiti anche loro nella contestazione della piazza e invece abituati al sostegno, se non proprio all’adulazione da parte dei cittadini, questo rovesciamento dei ruoli non fa piacere affatto. Il carismatico leader Nasrallah sta cercando la via diplomatica: ha offerto solidarietà a cortei e sit-in, trovando giuste molte critiche, ma anche detto che il governo non deve dimettersi perché può cambiare indirizzo. In tutta fretta Hariri, a inizio settimana, ha varato un pacchetto di riforme-tampone su cui spiccava il dimezzamento degli stipendi di politici e funzionari ministeriali. Non ha incantato nessuno. Più determinati che mai i manifestanti hanno chiesto il suo abbandono del palazzo, e hanno bocciato pure l’appello presidenziale. Chiedono un cambiamento totale. E hanno iniziato a montare tende nell’immensa piazza dei Martiri di Beirut, come fosse la loro Tahrir. Mercoledì per via sono comparsi i blindati dell’esercito. Ma in subbuglio è un’intera nazione, fatta di giovani soprattutto ma ora anche le famiglie. Quelle povere e un ceto medio che teme di finire sul lastrico. Soluzioni draconiane da parte del governo sarebbero una sciagura per tutti.    

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