Dati diffusi da poco più
della metà dei seggi indicano in un milione e centomila gli elettori che si
sono recati alle urne. Se tale cifra si raddoppierà e i votanti supereranno i
due milioni l’Afghanistan registrerà la più bassa percentuale (attorno al 25%)
di tutte le consultazioni presidenziali tenutesi dall’avvìo del cosiddetto
corso democratico voluto, manu militari,
dagli Stati Uniti. Nel 2014 i partecipanti furono sette milioni sui dodici
milioni di iscritti, il 60%. Stavolta i cittadini che si erano registrati nei
circa 5000 seggi ammontavano a 9.6 milioni. Ancor più che in altre occasioni il
voto di sabato 28 è stato blindato da oltre 70.000 militari, impegnati a
offrire sicurezza a chi si voleva esprimere nell’urna. Ma da una parte la paura
di ritorsioni talebane, che minacciavano il taglio delle dita che avessero
mostrato tracce dell’inchiostro con cui si controlla che l’elettore non si
rechi più volte nei seggi, dall’altra la disillusione palesemente manifestata
da tanti, troppi cittadini hanno prodotto quest’estraneità al decantato “giorno
dell’elezione”. Del resto molte candidature ripropongono quanto di peggio la
politica locale ha mostrato per anni: verticismo, corruzione, clanismo,
asservimento a interessi stranieri e a quelli dei potentati interni. Una
sequenza vista fino alla nausea dalla popolazione. Basti pensare che la
concreta lotta per la presidenza è ancora una volta racchiusa nel
confronto-scontro fra Ghani e Abdullah, i gestori di quattro anni più uno di
totale disastro politico che nella società afghana ha solo prodotto spargimento
di sangue civile. Eppure, nonostante la bassa affluenza, il governo ha salutato
la giornata elettorale come un successo. I vertici della politica ufficiale si considerano
già soddisfatti per aver tenuto sotto controllo la situazione generale, nonostante
gli agguati ai seggi che pure ci sono stati. La ‘rete di osservatori afghani’
ne conta circa quattrocento, rivolti prevalentemente alle strutture, di cui uno
solo in grande stile messo in atto nella simbolica Kandahar. Però si sono
verificati anche attacchi alle persone, una trentina le vittime, e dal distretto di Shinwari è
giunta la notizia d’un sequestro talebano ai danni di otto osservatori
internazionali impegnati in vari seggi. I risultati ufficiali della consultazione sono attesi fra il
19 ottobre e il 7 novembre. Se nessuno dei dodici candidati che vantano qualche
probabilità di successo supererà la metà dei voti, si ricorrerà al ballottaggio
fra i primi due piazzati. Quella coppia dovrebbe risultare un dejà vu.
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domenica 29 settembre 2019
venerdì 27 settembre 2019
L’Egitto che non vuole Sisi
La seconda settimana di protesta anti regime fa più male
della prima. Così il generalissimo,
ormai con più estimatori all’estero che in patria, fa arrestare alla vigilia
dell’odierno venerdì di mobilitazione circa duemila concittadini, compreso
qualche oppositore noto fra quelli che periodicamente sono costretti a fare i
pendolari attraverso carceri. L’ultimo vessato è un noto docente di scienze
politiche dell’Università del Cairo, Hassan Nafaa, che aveva dichiarato “Non ho dubbi che la continuazione del potere
di Sisi ci condurrà al disastro. Nell’interesse dell’Egitto la sua partenza è
auspicabile il prima possibile”. Per aver detto questo già mercoledì scorso
il professore è finito a far compagnìa in cella a gente come il portavoce
dell’ex capo dell’esercito Sami Anan. Quest’ultimo, poi, è a una sorta di
arresti domiciliari dal gennaio 2018 quando pensò di sfidare il presidente
nella carica dello Capo di Stato. La rielezione col pieno di consensi,
superiori al 97% (ma con un’affluenza dichiarata del 41%, secondo parecchi
analisti oscillante fra il 25% e il 30%) è stato l’ultimo atto d’amore di quel
pezzo d’Egitto che si schierava a favore del colpo di mano anti Fratellanza
Musulmana. Oggi anche una parte della non numerosa della classe media inizia a
non credere alle due parole d’ordine che hanno rappresentato il fulcro del suo
programma: sicurezza nazionale contro il terrorismo (che in alcune zone come il
Sinai, ma anella stessa capitale quando vuole, continua a colpire le Forze
Armate) e rilancio economico.
Fatta eccezione per il partenariato con l’italiana Eni
sullo sfruttamento del giacimento di gas Zohr che può rendere l’Egitto l’hub
mediterraneo del metano, per il turismo, negli ultimi tempi in ripresa anche in
base agli occhi chiusi della Comunità internazionale sull’eccezionalità
repressiva presente nel Paese arabo, e per le grandi opere pubbliche (il
secondo Canale di Suez e la mega capitale a sessanta chilometri dal Cairo) la
situazione economica non avvantaggia i ceti subalterni interni. Anzi. Rispetto
alla deprecata era Mubarak è stato ristretto quel minimo di ‘stato sociale’ in
natura rappresentato dai sussidi per idrocarburi e generi alimentari di prima
necessità offerti agli strati più umili. In crescita – in verità non solo in
Egitto – sono gli opposti: ricchi e poveri. E nelle ultime settimane a far
montare la disillusione su Sisi, si son messe anche le denunce sui social media
offerte da un appaltatore dell’esercito, tal Mohamed Ali (non si risenta la
memoria dell’omonimo campionissimo di boxe degli anni Sessanta e Settanta).
L’attuale Ali è un ex compare di Sisi e del suo apparato, un fornitore di
materiale edile che per tutto un periodo s’è arricchito con commesse per le
Forze Armate, ovviamente pagando tangenti. Quando il giochino s’è rotto e fra
l’imprenditore e il governo si son creati attriti lui è volato in Spagna e da
lì spara veleno contro il presidente. Ma come ha affermato un noto oppositore
del movimento “6 Aprile” più volte arrestato, la crescita del malcontento non è
certo orientata dall’affarista un tempo amico e oggi nemico di Sisi.
Questo soggetto cerca di cavalcare le proteste. Magari i
suoi interventi battenti ne ampliano l’eco, eppure l’opposizione oppressa con
arresti, torture, sparizioni acquisisce nuovo coraggio per esporsi e sicuramente
subirà danni e ulteriori incrudimenti della coercizione. Ma forse vacillanti cominciano
a essere le certezze del generale che vede come il progetto d’intimorire la
popolazione con assassini e rapimenti non riesce, comunque, ad azzerare il
dissenso. E questo nonostante il controllo capillare dei mezzi d’informazione e
il bavaglio posto ai social. Quella metà del Paese vicina all’Islam della
Brotherhood, silenziata da sei anni, continua a esistere pur senza manifestare,
le crepe all’unanimismo di facciata compaiono e il volto scuro del generale
golpista all’Assemblea dell’Onu fa il paio con quanto ha dichiarato circa le
“forze del male” che affliggono l’Egitto. Un anatema dettato dalla sua paura. Ipotesi
neppure tanto peregrina è che fra le stellette cairote si stia valutando se da
qui in avanti l’ingombrante figura presidenziale implicata in tanti buchi neri
della nazione, comprese le accuse di ruberie per sé e la consorte rivolte dal
businessman Ali, diventino un peso di troppo per la lobby militare. Perciò, a
garanzia del proprio potere, occorre trovare un altro Sisi, come la consorteria
militare fa da circa settant’anni o perlomeno dal momento in cui il “libero
ufficiale” Nasser fu meno libero di pensieri e dal terzomondismo finì per
proporsi come raìs. Seguìto da altri militari divenuti presidente (Sadat,
Mubarak) per nulla carismatici rispetto all’apripista. Insomma la costante
delle stellette sulla vita politica egiziana potrebbe pensare di sostituire il
capo per salvare il proprio sistema, evitando rivolte di piazza e sanguinarie
repressioni.
lunedì 23 settembre 2019
Afghanistan, le presidenziali impossibili
A cinque giorni dalla pluririmandata scadenza elettorale per le
presidenziali afghane c’è un candidato che sicuramente prega Allah perché si
giunga al voto. E’ il presidente uscente Ashraf Ghani, il fantoccio
statunitense osteggiato da taliban e dagli altri candidati, compreso l'amico-nemico
di governo Abdullah. Gli attentati che fino a una settimana fa hanno cercato di
riproporre un ennesimo rinvio per ragioni di sicurezza non ne hanno piegato la
convinzione, ma più che saldezza democratica
l’ostinazione con cui Ghani resta attaccato a quest’elezione riguarda il
suo futuro. Infatti è da tempo il grande escluso dalla vita politica nazionale,
un paradosso per chi riveste la carica più alta d’un Paese, pur disastrato
com’è l’Afghanistan. Ma si tratta d’un
Paese che non esiste. Continua soltanto a essere un luogo di morte per la guerra
strisciante fra gli occupanti della Nato e i talebani che rivendicano il ruolo
di resistenti all’invasore. Nell’anno in
cui i contendenti statunitensi e i turbanti di Quetta si sono ripetutamente
incontrati per discorrere del futuro prossimo, Ghani è rimasto fuori dalla
porta, considerato indesiderato e indegno dalla delegazione della Shura, senza
che gli americani obiettasse nulla. Per questo il ‘presidente senza potere’ si
spende da tempo per il ritorno alle urne, senz’altro previsto come scadenza, ma
in un sistema completamente svilito.
Allora l’uomo che si sente solo cerca l’unica sponda
possibile, quella offerta dagli altri candidati che, non fosse altro perché
desiderano prendere il suo posto, s’apprestano al confronto dell’urna pur denunciando
quel che appare palese: il voto potrebbe essere inficiato dagli atavici brogli.
Nessuno però evidenzia un’altra realtà: questo voto risulterà assolutamente parziale. Poiché i seggi
elettorali sono presenti sulla metà del territorio (l’altra metà è
impraticabile in quanto controllata dai talebani) e anche le urne aperte e vigilate
militarmente potranno essere oggetto di agguati, com’è già accaduto in precedenti
circostanze. Dunque, le presenze certe nel 28 settembre che s’approssima sono
il terrore generalizzato e i taliban. Quest’ultimi estranei alla competizione
elettorale, ma incombenti nel clima creato dalle loro stragi e, di sorpresa in
sorpresa, non è detto che il
trasformismo che comunque aleggia su quello scenario in futuro non possa accettarli anche nella
veste di concorrenti. Finora gli studenti coranici l’hanno rifiutata. Essi conoscono la
propria forza e la debolezza altrui e una parte celata dei colloqui, poi
interrotti da Trump, riguardava un loro possibile ritorno legale al potere. Però
i turbanti vogliono scegliersi i ‘compagni di merende’ e mostravano di non
gradirne nessuno fra quelli all’orizzonte. Del resto basta ascoltare le
dichiarazioni degli anti Ghani per intuirne, nonostante le critiche rivoltegli,
un comune denominatore.
lunedì 16 settembre 2019
Tunisia, sorprendono afflusso ed outsider
Doppia sorpresa nel
primo passaggio elettorale delle presidenziali in Tunisia: l’astensione è
risultata meno marcata di quanto la dichiarata disillusione politica della
popolazione avrebbe fatto attendere. Così il 45% dell’elettorato recatosi ai
seggi, controllatissimi da settantamila militari, è di molto inferiore al 64%
registrato cinque anni fa, ma non sconfortante come l’ipotesi del 25-30%
ventilata da alcuni sondaggi. L’altra sorpresa è il vincitore del turno selettivo:
Kais Saïd, un sessantunenne professore di diritto costituzionale che occupava
un posto nella fitta schiera di indipendenti e che ha messo in fila i più
quotati candidati del regime recente e della nostalgia benalista Probabilmente
è stato il voto giovanile a dargli fiducia e a darsi speranza in una nazione
rimasta bloccata da anni. I ragazzi che non vogliono finire nella spirale della
violenza jihadista, che in Tunisia recluta pagando il bisogno e la
disperazione, e non hanno le migliaia di
dollari per i viaggi degli scafisti sempre meno sicuri non solo per la tenuta
in mare, ma per l’accoglienza sulle coste italiane e le collocazioni in Europa.
Le due piaghe dello sradicamento sociale restano, ma chi ripone fiducia nel
professore cerca altro. Il competitore con cui dovrà vedersela a metà ottobre,
o forse a novembre perché non c’è ancora una data precisa del secondo turno,
dovrebbe essere colui che i sondaggi davano per sicuro vincente: il tycoon Nabil
Karoui. Ha ottenuto un 15,5% di preferenza, il 4% in meno di Saïd, mentre più
staccato è l’uomo di Ennahda, Abdelfattah Mourou, con un consenso fra l’11 e il
12%. Il suo partito non s’è rassegnato, comunicando ufficialmente di attendere
i risultati finali dalla Commissione elettorale, l’unica che ha il potere di
verificare la correttezza delle schede scrutinate. Comunque i più penalizzati
dal voto, viste le reciproche aspettative sono le due figure istituzionali:
l’ex premier Chahed e l’ex ministro di Essebsi, Zbidi. Quest’ultimo, sicuro di
un’affermazione, s’era spinto a preventivare una prossima riforma
costituzionale per un ritorno al presidenzialismo dell’epoca di Ben Ali. E più
d’uno fra i candidati accreditati aveva concesso strizzate d’occhio all’ex raìs,
lodando sua era (sic). La mossa non ha avuto presa sull’elettorato. Però la
stessa novità rappresentata da Saïd, tenutosi lontano dalle lusinghe dei
partiti storici, non mostra una piani diversi concorrenti. Anch’egli appare
imbalsamato nella conservazione di un’economia malata che non studia né lavora
per percorsi alternativi. Perciò chi si sta appoggiando a questo candidato
fuori dal coro, potrebbe scoprire scarse o nessuna novità, soprattutto di
quelle prospettive socio-economiche che sono l’inestirpato tumore tunisino.
domenica 15 settembre 2019
Presidenziali tunisine fra disillusione e benalismo
Chiusi i seggi delle presidenziali tunisine quel che balza
immediatamente agli occhi e alla conta che non offre ancora dati ufficiali è la
bassa affluenza alle urne, frutto di anni di disillusione seminata a piene mani
dalla politica. Che pure veniva vissuta con passione almeno per un biennio dall’avvìo
della protesta antiautoritaria che, nel dicembre 2010, diede il la alle
primavere arabe e mantenne la Tunisia, pur fra i drammi di omicidi politici e gli
spazi ricercati dal fondamentalismo jihadista, in una diversità dalla tragica
fine di piazze come quelle egiziana, libiche, siriane. Però, i gruppi che si
sono succeduti al potere, dall’islamista Ennahda al secolare Nadaa Tounes hanno
solo prodotto una polarizzazione, lasciando insolute questioni vitali come
quella economica in crisi perenne. Un’economia problematica già nei decenni del
vecchio regime con una dipendenza atavica da capitali stranieri, un’economia
che offriva manodopera a basso costo che proprio per i bassi salari non
sollevava le sorti dei lavoratori, ma al contempo non vedeva strutturarsi un
ceto imprenditoriale autoctono degno di questo nome. Produceva rapidi
arricchimenti e fughe di capitali trasformati in rendite di squallidi furbetti
protetti dalla politica. L’eredità è l’attuale disoccupazione incistata a un
15% della popolazione, con punte del 40% fra i giovani che oggi risultano oltre
il 70% dell’elettorato. Ecco un buon motivo perché ragazzi e ragazze - che pure
hanno visto fratelli e sorelle scendere per via nel periodo della ricerca d’una
svolta - restano senza fiato di fronte al vecchiume che hanno davanti agli
occhi. Un vecchiume che ormai non è il defunto Essebsi, ma chi si candida a
sostituirlo, proponendo nient’altro che il passato. Erano partiti in 96, ne
sono rimasti 24, coloro che si contenderanno un ballottaggio sono quattro
elementi, uno peggiore dell’altro.
Dal probabile vincitore di questo primo turno l’imprenditore Nabil Karoui, magnate delle
comunicazioni con Nessma TV, che
unisce messaggi popolari a elemosine ai diseredati, mentre si dà da fare col ‘riciclaggio
e frodi fiscali’ tanto da risultarne arrestato lo scorso 23 agosto. Non avrebbe
dovuto correre per la prestigiosa carica presidenziale, invece eccolo lì
addirittura con l’opportunità di giocarsi il ballottaggio. Secondo inguardabile
un fedelissimo del defunto presidente e suo ministro della Difesa, Abdelkarim Zbidi, che ha alle spalle
l’apparato di Nedaa Tounes. L’unica
proposta concreta annunciata in campagna elettorale un ritorno al presidenzialismo,
per avere come ai tempi di Ben Alì mano libera in politica estera e nel controllo
dell’apparato della forza, poteri che il Capo dello Stato aveva perduto dal
2014 per l’introduzione d’un sistema semipresidenziale. Ma c’è di peggio. Il
premier uscente Youssef Chahed,
transfuga del partito Nedaa Tounes, ambisce alla più prestigiosa carica che fu
di Ben Alì. Anzi durante la campagna elettorale, per ottenere consensi fra quei
tunisini che l’ex presidente lo sognano ogni notte, paventa un rientro dell’ex
dittatore nel Paese che ha contribuito a dissanguare, con ruberie ed esercito repressore.
Fino a giungere a una figura femminile, che certa stampa locale ha presentato nella
veste di ‘pasionaria’, Abir Mousi,
talmente nostalgica del regime benalista da non nascondere la sperticata l’ammirazione
per il raìs che si definiva progressista e venica accolto nell’Internazionale
socialista. Ma era quell’Internazionale dove sedeva anche Bettino Craxi, e
allora i conti (per i rispettivi clan) tornavano. Dire che al turno di voto hanno
partecipato pure l’esponente di Ennahda, Abdelfattah
Mourou, l’indipendente Moncef
Marzouki, e, sempre divisi, alcuni esponenti della sinistra serve a poco.
Il quadro resta desolante fino alla scelta definitiva di metà ottobre.
venerdì 13 settembre 2019
Crisi colloqui afghani: così parlò il taliban
“Se gli americani non vogliono più
attaccarci, se vogliono ritirarsi e firmare l’accordo, noi non li attaccheremo.
Se invece ci attaccano, continuano i bombardamenti e i raid notturni allora continueremo
a fare ciò che abbiamo fatto negli ultimi diciotto anni”. Questa è la
risposta talebana al voltafaccia operato da Trump nei giorni scorsi. Giunge dalla
capitale del Qatar, sede dei colloqui di pace e dell’emittente Al Jazeera cui il portavoce di turbanti ha
rilasciato un’intervista. L’uomo, che si chiama Suhail Shaheen, ha definito
sorprendete la dichiarazione del presidente Usa perché “noi avevamo concluso i colloqui di pace”, come del resto aveva
annunciato anche il diplomatico afghano-statunitense Khalilzad, che per mesi aveva
guidato le trattative. A detta di Shaheen, fra i vari punti affrontati in nove
sessioni protrattesi dall’ottobre 2018 ai primi dello scorso settembre, era giunto
un reciproco benestare sulla garanzia talebana di non offrire i propri territori
come base per gruppi jihadisti stranieri, modello Al Qaeda, e sul ritiro delle
truppe statunitensi. Un ritiro da iniziare con cinquemila unità e concludere con
l’intero contingente entro alcuni mesi. Invece il cessate il fuoco sarebbe
entrato, come il punto del dialogo intra afghano, in una fase successiva
dell’agenda. Solo dopo il totale ritiro dei contingenti d’occupazione i taliban
avrebbero assicurato un blocco delle ostilità. “Saremo pronti a parlare con le altre forze afghane in una seconda fase –
ha dichiarato il portavoce talebano – ma questo
è un altro tema da prendere in esame dopo la fine dell’occupazione del Paese”.
Inoltre sui possibili attacchi o danni a militari statunitensi - che ha offerto
lo spunto a Trump per bloccare un patto già sancito almeno sui due suddetti punti
- l’uomo dei turbanti ha sottolineato come appena ufficializzato l’accordo
avrebbero garantito un ritiro senza alcun attacco a militari Usa. “Ma se
non c’è accordo noi decideremo di attaccare o meno se si presenterà un
interesse nostro, oppure un interesse nazionale e islamico”. E finora è
andata così: niente accordo e solo sangue in troppi casi di civili, di cui i dialoganti
in undici mesi non si son mai preoccupati.
giovedì 12 settembre 2019
Egitto fra morti improvvise e vite sospese
L’Egitto delle morti improvvise, da parecchi ritenute
sospette - come quella di Abdullah Morsi, figlio più giovane del defunto
presidente, stroncato anche lui da un infarto - propone da tempo rapimenti e
sparizioni. Talune tragiche, alla maniera di Giulio Regeni, altre meno
inquietanti visto che non si concludono con l’assassinio del sequestrato, però
egualmente violente, vessatorie, angosciose. E da oltre un anno il sistema
repressivo messo su dal presidente golpista Sisi ha introdotto arresti a tempo.
La persona, in genere giovane con un passato movimentista o d’opposizione,
viene prelevata dalla propria dimora oppure fermata per via con motivazioni
vaghe e pretestuose. Viene condotta in un commissariato di polizia per
accertamenti e comunicazione di addebiti, se gli va bene finisce davanti a un
giudice che impone una reclusione breve - quindici giorni, un mese - che il
soggetto subisce e al tempo stesso accetta perché la vede come ‘un male
minore’. Finendo, però, in un circolo perverso, narrato da alcuni ex attivisti
che ormai entrano ed escono di prigione con una periodicità impressionante. Certo,
l’importante è uscirne, ma gli avvocati dei diritti che si sono occupati dei casi,
avvocati sempre meno numerosi poiché rischiano accuse di complicità con gli
assistiti, riferiscono di sevizie, privazioni, deperimenti dovuti a carenza di
cibo, malattie contratte nei luoghi malsani di prigioni ufficiali e ufficiose. Per
non parlare dello stato di prostrazione vissuta da alcune vittime che si
sentono sospese in questa condizione di reclusione e libertà vigilata divenute le
costanti della loro esistenza.
L’inferno psicologico è l’ulteriore meccanismo di paura diffuso nel
grande Paese arabo da un regime cui il mondo lascia fare ciò che vuole verso
cittadini, lusingati con una forzata scelta di consenso oppure terrorizzati da
quello che gli potrà accadere. Addirittura individui al di sopra d’ogni
sospetto, che mai hanno manifestato segni di repulsione contro lo Stato forte
imposto da militari, poliziotti e magistrati iniziano a segnalare crescenti
anomalie quotidiane. Accadono, ad esempio, a insegnanti rei d’essere stranieri.
L’ultimo episodio ha per protagonista e vittima una docente francese, sposata a
un palestinese con madre egiziana, che s’è vista arrestare il marito impegnato in politica. Contemporaneamente
è stata fatta rimpatriare senza poter rivolger al proprio Consolato alcuna
protesta. E’ stata bollata come persona non gradita, e le è andata bene. Se
tanto accade a elementi del ceto medio-alto, che tramite contatti familiari
riescono a lanciare pubblici appelli d’aiuto, figurarsi la condizione di donne
e uomini senza risorse economiche, senza il possibile sostegno di partiti
d’opposizione e neppure delle associazioni dei diritti, da quattro anni a questa
parte messe al bando con una diretta persecuzione di responsabili e attivisti.
E’ accaduto al Centro El-Nadeem, al Centro Nazra, all’Istituto cairota per gli
studi sui diritti, a decine di Ong locali meno note. Le sessantamila
detenzioni, la cancellazione di trentamila siti web sono conosciute, eppure non
accade nulla. Mentre s’impone l’Egitto dell’esistenza appesa a un filo,
oscillante fra i giorni penzolanti verso una quotidianità posta sotto controllo
e quelli bloccati dal respiro messo sotto chiave. Un Paese definito normale.
martedì 10 settembre 2019
Afghanistan, dai colloqui al voto in un Paese senza pace
Chiarito che il colpo di scena e di spugna sui
‘colloqui di pace’ afghani è opera del presidente Trump, vengono fuori le
tensioni che dividono il partito repubblicano statunitense. C’è chi, come il
Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca Bolton, non voleva e non vuole
il ritiro dei militari dalla “lunga guerra” perché lo spettro dell’11 settembre,
di cui ricorre domani il diciottesimo anniversario,
è sempre dietro l’angolo. E chi (il Segretario di Stato Pompeo) pensava e pensa
che un accordo sia una soluzione utile non solo come medaglia da esporre nella
teca delle stipule storiche firmate a Camp David. Eppure la vanità dell’attuale
presidente Usa, che avrebbe sfidato quella dei meno permalosi Carter e Clinton
s’è fermata, bloccando un percorso lungo un anno e più. La tela tessuta da
Khakilzad, il diplomatico afghano che preserva gli interessi americani, resta
incompiuta. In verità il tragitto potrebbe ripartire. I talebani ne sono
allettati, sebbene abbiano voluto forzare la mano con attentati e morte che nel
loro codice incentiva l’autostima e dice ai locali signori della guerra vecchi
e nuovi, quelli idealmente vicini (Hekmatyar) e quelli buoni per tutte le
stagioni (l’attuale vicepresidente Dostum): senza di noi non andrete lontano. Lo
sanno tutti, ma tutto sembra perpetuarsi.
A cominciare dalla parvenza di democrazia incarnata dalle
elezioni presidenziali del 28 settembre. Ora, attentato più attentato meno e
non vogliamo con ciò apparire cinici, è questa la scadenza cui guarda chi è
stato messo ai margini dalle trattative qatarine. Innanzitutto il presidente
uscente Ghani, il cui ruolo è un tutt’uno col modello politico fallito. Uno
schema imposto dall’Occidente in cui crede solo quel pezzo dell’Afghanistan
volutamente o involontariamente legato a esso. Politici, governatori e
funzionari spesso corrotti, burocrati d’un apparato costosissimo che si
autoalimenta ma nulla fa per la nazione e la sua gente. Non a caso gli stessi
due rami del Parlamento (Wolesi Jirga e Meshrano Jirga) sono riempiti di
soggetti che perpetuano una conduzione politica tutt’altro che favorevole al
popolo, e i pochi rappresentanti lontani da intrighi vivono in isolamento
istituzionale. L’hanno testimoniato più volte. In queste ore nel rilanciare le possibilità
elettorali, organi di stampa locali come Tolo
News riportano le dichiarazioni di alcuni candidati. Pur in lizza i signori
Ahmad Massud e Rahmatullah Nabil, credono poco alla trasparenza elettorale,
temono quei brogli che si sono ripetuti nelle sedicenti elezioni libere dei
tempi di Karzai e ancor più di Ghani. Dubbi alimentati dai giri di valzer d’un
personaggio come Abdullah, che ha infilato conferme e smentite su una sua
ennesima candidatura.
Costui, esponente dell’attuale diarchìa che condivide con
Ghani, è un vecchio arnese della politica bifronte praticata dagli uomini del
modulo democratico: la veste occidentale s’intreccia al tribalismo dei clan, i legami
etnici e confessionali supportano quel parastato dei gruppi paramilitari dei
warlords che controllano le province, rappresentando un contraltare alla
matrice talebana con qualche principio fondamentalista più attenuato, ma con la
medesima violenza. Tutto ciò non è un’opinione, è scritto in quanto di
scarsamente popolare s’è fatto nel Paese dal 2003, dopo che il governo talebano
era stato sostituito da figure garantiste per una sedicente democrazia. Una
linea suggerita da Washington e dagli alleati occidentali che si comportavano,
né più né meno, come i padri dell’imperialismo moderno che inventava il Medio
Oriente con le spartizioni degli accordi Sykes-Picot-Sazonov. In certa storia
che si ripete c’è anche del nuovo, ovviamente tecnologia e attuale economia
stabiliscono sistemi di sfruttamento e controllo più sofisticati. Però nel caso
della nazione cuore dell’Asia, verso cui si sono alimentati interessi e
intrighi che hanno dato vita a un filone geopolitico definito “Grande gioco”, taluni
meccanismi non tramontano. E la crudeltà nei confronti di cittadini, cui s’impedisce
l’emancipazione, resta immutata.
domenica 8 settembre 2019
Trump congela l’accordo coi taliban
Irruento e umorale come sa essere, Donald Trump ha bloccato due incontri
segreti da tenere a Camp David. Il primo con una delegazione talebana quindi
col presidente afghano Ghani. Così il via libera alla sedicente pace atteso a
ore, e guarda un po’ a cavallo dell’11 settembre, resta bloccato. Quel che non
riuscivano a fermare le centinaia di vittime di attentati che insanguinano il
cammino della gente comune, lo ferma il decesso d’un soldato statunitense
straziato dall’ultima autobomba del fondamentalismo a Kabul. E’ questo il
motivo ufficiale del blocco trumpiano. Sorpreso anche Ghani, tenuto sempre
lontano dai tavoli dei colloqui per il diktat imposto dai turbanti che
considerano la sua figura un’ingerenza nell’Afghanistan del futuro, mentre la
delegazione talib di Doha ha dato notizia d’un prossimo suo vertice che punta
ad agire non impulsivamente davanti alla mossa del presidente Usa. I negoziatori
della Shura di Quetta forse non sono stupiti affatto, loro hanno continuato a puntare
al caos, imponendo attentati su attentati in tante, troppe province. La
sequenza degli ultimi giorni è stata impressionante: Takhar, Badakhshan, Balkh,
Farah, Herat, Baghlan, Kunduz, Kabul.
Voleva ribadire la
propria supremazia verso chiunque: gli americani
trattanti e gli alleati delle truppe Nato di cui richiedevano il ritiro,
inizialmente integrale poi concordato su cinquemila unità, i miliziani concorrenti
del Khorasan, e pure l’esercito locale giudicato incapace praticamente di
tutto. Agli Stati Uniti stava bene così perché, oltre a mantenere le basi aeree
per controllo e possibili attacchi a obiettivi nemici (che non solo i
jihadisti, ma soprattutto potenze regionali e mondiali), potevano proseguire e
rilanciare l’azione armata dei reparti della propria Intelligence e delle varie
agenzie mercenarie che da anni agiscono su quel terreno. Dovevano ricevere in
cambio la promessa talebana di non fornire basi al terrorismo qaedista, una
promessa tutta da verificare, ma ad accordo concluso vendibilissima in patria
al cospetto dell’elettorato chiamato prossimamente a eleggere il 46° presidente
Usa. La pantomima della “pacificazione” sta andando avanti da un anno e, ora
che il traguardo era prossimo, giunge il colpo di scena. Nel gioco delle parti
questa sospensione può avere lo stesso effetto impresso dai turbanti col loro “dialogo
a suon d’autobomba”.
Trump ama sorprendere, quest’atteggiamento è il suo piatto forte in politica
estera: l’ha usato con Kim, Rouhani e Zarif, col governo cinese nel tira e
molla sui dazi. Ovviamente gli analisti si scatenano per decriptare il suo voltafaccia
che fa più male ai taliban perché azzera un invito in un luogo simbolo per la
diplomazia americana, divenuto celebre nella politica mondiale. Secondo alcuni
commenti il Capo della Casa Bianca avrebbe ceduto al suggerimento di taluni consiglieri
che ritengono fortemente squilibrato l’andamento della trattativa, coi turbanti
da mesi fermi ad esempio nel rifiutarsi di riconoscere valore alle attuali
istituzioni afghane, che sarebbe un’anticamera
per riproporre il loro Emirato. Mentre c’è chi sostiene che Trump sia solo
pratico non etico e non si strappa le vesti per Ghani e il parlamento afghano,
che se accordo ci dovesse essere dovranno subìre assieme l’intero Paese il
ritorno talebano. E alla fine la stoccata del presidente americano sarebbe
null’altro che un colpo di teatro al quale i talebani opporrebbero la ferrea
logica delle motivazioni ultime. Se la “lunga guerra” non ha un vincitore, ha
certamente uno sconfitto: l’invasore. E se quest’ultimo vuol conservare certi
interessi in Asia, l’accordo non potrà essere rinviato all’infinito.
venerdì 6 settembre 2019
Morsi junior, il buio e l’oblìo
Di notte.
Al buio.
Una bara circondata da poliziotti e mukhabarat che vigilano perché nessuno,
proprio nessuno accompagni un giovane dal cognome ingombrante. Qualcuno invece
c’è, pur tenuto a distanza e infila due scatti che girano sul web. Mostrano l’inumazione
tenuta segreta di Abdullah Morsi, il figlio dell’ex presidente egiziano, morto
come il padre per infarto, ma a venticinque anni. La notizia del decesso data
dalle agenzie, segnalata da Al Jazeera
e commentata soprattutto sui social - con grosse limitazioni nel Paese arabo
dove la paura prima della stessa censura ha frenato tanti dal manifestare
pensieri - ha anche visto parecchi sollevare dubbi su questa morte giunta
improvvisamente a una verde età. In un ragazzo che, a detta dei familiari, non
manifestava patologie cardiocircolatorie. La polizia non sembra aver
predisposto indagini di nessun genere. Invece s’è organizzata per agli stessi
parenti della vittima, di accompagnarla per l’ultimo saluto. Il rito funebre s’è
svolto in piena notte e la mano pietosa e anonima che ha scattato quelle
immagini, l’ha fatto a suo rischio, celandosi dietro altre persone. Se qualche
funzionario avrà visto, ha lasciato correre, poiché l’intento governativo era
stato raggiunto. Come per tante vicende egiziane la finalità di regime è volta
a nascondere e cancellare, a realizzare quell’oblìo che vuol far dimenticare
morti ammazzati e torture seriali, arresti di massa e persecuzioni personali.
Va avanti
così da sei anni
e la comunità internazionale non mostra imbarazzi. Ma dall’insinuarsi indebitamente
nei cosiddetti “affari interni” d’una nazione, alla scelta d’ignorare la linea repressiva e la ripetuta violazione dei diritti umani che i militari
del Cairo perseguono, ce ne passa. Se nessun Paese proferisce parola su quanto
accade in quella società, e non lo fa neppure l’Italia il cui concittadino
Giulio Regeni è finito martoriato con palesi e gravissime responsabilità
dell’establishment al potere, la questione è preoccupante. Invece il nostro mondo
politico è tutto infoiato dagli affari che si possono avviare e concludere con
quel Paese governato da assassini. C’è una chiamata diretta che coinvolge due
figure del neo formato governo: il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio.
Entrambi erano presenti nel precedente governo, il primo col medesimo incarico,
il secondo allora come ministro dello Sviluppo Economico. Insieme all’intero
Esecutivo uscente non hanno certo brillato per sostegno politico al lavoro
giudiziario dei procuratori Pignatone e Colaiocco che indagavano sull’omicidio
del ricercatore friulano. Da Conte e Di Maio, e da tutto un governo che afferma
di nascere nel segno d’una “discontinuità”, i cittadini che domandano giustizia
sul caso Regeni s’aspettano passi concreti: rottura diplomatica ed economica
con un regime che sparge sangue innocente. E ostacola che un giovane infartuato
che si chiama Morsi possa avere l’estremo saluto di parenti e amici.
Turchia, l’emergenza rifugiati e l’Unione europea
“Noi non apriamo i
nostri confini a duecento rifugiati,
come i Paesi occidentali” ha affermato ieri Erdoğan in un intervento fra le fila del
suo partito riunito ad Ankara. Il riferimento risuona come monito per il
presente e futuro, ma anche per le promesse che in passato i vicini europei non
hanno mantenuto. Promesse pecuniarie, innanzitutto. A metà del 2016, quando
l’emergenza migranti via terra e via mare angosciava il vecchio continente, la
cancelliera Merkel a nome dell’Unione Europea accordò 6 miliardi di euro per finanziare
i campi profughi che Ong turche organizzavano oltre i propri confini
sud-orientali. Della cifra fu promessa nell’immediato la metà, dopo tre anni
non solo mancano i restanti tre miliardi, ma pure una buona fetta di quelli che
dovevano giungere dopo alcuni mesi dall’accordo. Gran parte del flusso migratorio
di chi cercava riparo dallo spettro dello Stato Islamico erano siriani (circa 4
milioni risiedono attualmente in Turchia), ma fuggivano, e tuttora fuggono,
tanti afghani dai disastri della propria terra marchiati dai talebani e da quei
dissidenti che ora s’etichettano jihadisti del Khorasan. E poi iracheni,
pakistani e altri popoli. Le migrazioni create dai conflitti e dall’instabilità
economica sono la contraddizione con cui la politica globale s’interfaccia, e un
uomo di mondo come il presidente turco lo utilizza e lo pone come merce di
scambio.
Non che a Bruxelles abbiano fatto diversamente e meglio. Anzi. Così il
sultano, che ha ingoiato pesanti sconfitte interne alle amministrative di marzo
perdendo tutte le maggiori municipalità, con lo smacco ripetuto a giugno a
Istanbul, cerca di gestire la questione che produce criticità su vari fronti.
La linea dell’accoglienza scelta dall’Akp non ha pagato. Diversi analisti
sottolineano come proprio nella ripetuta elezione sul Bosforo la posizione
populista di İmamoğlu sui siriani che “devono tornare a casa loro” abbia
trovato seguito e voti fra tanti istanbulioti, compreso l’elettorato islamista di Fatih dove i siriani
accolti dalla Mezzaluna Rossa sfiorano il milione. Erdoğan sulla questione non
cambia posizione né faccia, ma chiede quel sostegno economico e politico che
l’Europa ha promesso e non ha dato. Peraltro nel discorso di ieri ha ricordato
come finora lo Stato turco abbia elargito più che incassato. Il denaro dedicato
ai siriani ha superato i 40 miliardi di dollari e poiché negli intenti
umanitari del governo di Ankara c’è il desiderio di offrire una condizione
dignitosa ai profughi che vivono nelle aree di confine, tuttora nelle tendopoli,
il suo progetto prevede di costruire e adibire per loro case in zone di
sicurezza. Per questo piano servirà accordarsi oltreché con Germania e Gran
Bretagna, anche con Stati Uniti e Russia.
Trattandosi di territori sensibili, dov’è ancora in atto
il conflitto, come a Idlib, e anche di aree che vedono la presenza organizzata
di forze quali le unità combattenti kurde del Rojava, il tutto risulta un tema
delicatissimo di geopolitica mondiale. Il presidente turco, diversamente da
omologhi occidentali, non mette la testa sotto la sabbia. Al contrario, le
sfide più complesse ne stimolano le mai celate manìe di grandezza. In aggiunta
il cinismo tipico dei giocatori d’azzardo lo conduce a rilanciare, tendendo la
mano e minacciando. Dice alla Ue di poter continuare a tenere tanti profughi,
ma vuole nuove condizioni per evitare il malcontento dei turchi più bisognosi
che si sentono trascurati del governo. Perciò occorrono denaro per le case
d’accoglienza e territori su cui costruirle. Lui suggerisce chi dovranno essere
i pagatori e in quali punti collocare il rimpatrio di milioni di siriani. L’Unione
Europea, vissuta per anni fra necessità ed emergenze, egoismi e spaccature
interne, viltà e indecisioni, non sembra attenta alla gravità della situazione.
Eppure una nuova rotta balcanica è già in atto da due anni, coi profughi sempre
delle stesse nazionalità, bloccati e parcheggiati prevalentemente in Bosnia, in
condizioni di abbandono ed emergenza. I
volontari e le Ong marginali che s’occupano di costoro spesso sono privi di
quei fondi che i politici di Bruxelles maneggiano con una cura rivolta solo ai
propri confini, tranne angosciarsi se vengono “violati”. La neo commissaria
europea e pupilla della Merkel, Ursula von der Leyen, e i suoi retribuitissimi
colleghi dovrebbero operare col pragmatismo richiesto da un simile dramma.
giovedì 5 settembre 2019
Egitto, muore anche Morsi junior
Un destino segnato quello di Abdullah Morsi,
figlio venticinquenne del deposto, incarcerato e defunto presidente egiziano
Mohammed. Anche il giovane è morto per un attacco cardiaco avvenuto ieri. Ne
danno notizie alcune agenzie, fra cui la turca Anadolu, che riporta i comunicati dell’Oasis hospital di Giza e la
versione fornita dal fratello Ahmed. Abdullah stava conducendo un’auto quando
ha riscontrato improvvisi spasmi. Soccorso è stato condotto in ospedale, ma il
personale sanitario non è riuscito a rianimarlo. Il decesso segue di tre mesi
quello paterno, avvenuto sempre per un infarto mentre era in corso un’udienza
nel Tribunale che giudicava l’ex presidente per “aver tramato contro la sicurezza
della nazione”. Le condizioni fisiche del sessantottenne politico della
Fratellanza Musulmana erano compromesse dalle disfunzioni cardiache e dal
trattamento carcerario che, dal momento della sua rimozione nel luglio 2013,
non era stato leggero. Come denunciato dai legali di vari leader del partito
islamista, in alcuni casi finiti anch’essi in galera, il carcere duro e le
torture non erano mancate per uomini che avevano superato sessanta e
settant’anni d’età. Abdullah Morsi non s’occupava di politica. Certo, aveva
assistito il padre durante il processo e s’era mostrato critico verso il regime
persecutorio introdotto dal generale Al Sisi. Il ragazzo era stato recentemente fermato con l’accusa di uso di stupefacenti, però i difensori
sostenevano si trattasse di un’accusa fabbricata ad arte per incutergli timore
e tenerlo lontano da tentativi di sostegno della causa paterna e di quella del
gruppo di riferimento. In alcuni interventi comparsi sui social network il
giovane Morsi aveva additato Abdel Ghaffar, il ministro dell’Interno che ha
gestito gli anni della repressione più dura nei confronti di oppositori e di cittadini
egiziani e stranieri, che hanno conosciuto rapimenti, sevizie e morte violenta come il nostro Giulio Regeni.
E aveva citato anche l’attuale ministro Mahmoud Tawfiq, successore di Ghaffar e
suo strettissimo collaboratore nella National
Security Agency, l’Intelligence che tanta parte ha avuto nelle operazioni più
nere, peraltro non terminate. In ogni caso, il secondo figlio di Morsi è
mancato per attacco cardiaco. Occorrerà vedere se seguiranno
indagini.
martedì 3 settembre 2019
Afghanistan, continua la guerra alla gente
Mister Khalilzad non solo sa, ma ha ampiamente messo in conto che
mentre annuncia l’ormai certo ‘accordo di pace’ coi leader dei talebani
dialoganti, i miliziani della stessa famiglia proseguono gli attentati per far
salire le proprie quotazioni. La tre giorni di Kunduz-Balkh-Kabul (ieri sera un
camion-bomba nell’area della capitale definita Green Village ha dilaniato
sedici persone e ne ha ferite oltre un centinaio) non è frutto dello Stato
Islamico del Khorasan. E’ opera dei turbanti di Doha che vogliono molto di più
di quel che chiedono. Hanno compreso come l’accordo gli restituisce quanto
l’invasione dell’Enduring Freedom gli
aveva tolto, non solo quale presenza sugli scranni di Kabul, ma nei rapporti
internazionali. Dall’altra parte del tavolo i servitori del cinico Trump, che
pensa esclusivamente alle sue elezioni, gli confezionano un piano per l’elettorato:
anziché svenarsi nella polvere afghana, interessi e spese americane vengono
riconvertiti. E’ un giochino di prestigio, perché occhi e mani statunitensi
restano in loco pur se diminuiscono i numeri. Infatti già si conteggiano 5.000
marines in meno, ma di fatto questo percorso rilancia il lavoro che da tempo la
Cia pratica con la formazione di reparti antiterrorismo. Questi venivano
addestrati già nei primi anni d’occupazione del Paese, ne facevano parte
militari Nato di diversa nazionalità, fra cui nostri incursori del ‘Col
Moschin’.
Quindi gli addestratori di Langley si sono spesi
nell’organizzare milizie parallele di afghani le cui azioni andavano dal
semplice pattugliamento di massima sicurezza per i capi militari Nato presenti
in loco, a missioni segretissime nei
santuari del jihadismo e negli stessi territori della Fata, oltreché di
‘extraordinary rendition’. Da qualche tempo alcune di queste unità sono finite
sotto la direzione dell’Intelligence afghana, seppure gli addetti ai lavori
sostengano che simili interventi si sviluppano sempre e solo sotto la
supervisione della Cia. I taliban hanno continuato a colpire questi reparti,
disprezzandone gli appartenenti locali, fino a ucciderne alcuni responsabili di
primo piano. Un caso clamoroso accaduto circa un anno fa è stato l’eliminazione
del generale Raziq, freddato assieme al capo della sicurezza dell’Afghanistan
meridionale in un compound di Kandahar, dov’era in corso un incontro di
vertice. Il colpo fu realizzato da una guardia del corpo, un talebano
infiltratosi nientemeno che fra i super agenti dell’Intelligence locale. Raziq
era considerato, dalla popolazione che aveva subìto i suoi trattamenti, un
torturatore seriale. E per questo era odiato. Attualmente Trump sostiene la linea di diminuire la
presenza delle truppe, incrementando il lavoro dell’Intelligence, ma i vertici
militari insistono che occorre una precisa definizione di tempi e modi, non di
una parata di numeri.
Anche perché secondo alcuni analisti un ritiro rapido delle
truppe produrrà un collasso sulla sicurezza del Paese anche in quelle province,
e sono un terzo del Paese, teoricamente sotto il controllo delle forze governative.
Lo dimostra la crescente perdita quantitativa delle Afghan National Army,
incapace di tenere il terreno senza il supporto dei marines e dell’aviazione
americana. I taliban lo sanno e conseguire un accordo che li renda vincenti sui
tavoli diplomatici è gioia anche maggiore dell’ampliamento del controllo di
vallate e vie di comunicazione in ogni punto cardinale. Eppure una delle
posizioni statunitensi, che ovviamente propende per il ritiro, sostiene che attacchi
tramite droni, F35 e bombe supertecnologiche - come quella fatta esplodere
nell’aprile 2017 nell’area di Nangarhar - siano sufficienti a garantire gli
attuali interessi americani, appunto legati al mantenimento delle basi aeree
per l’offesa e la supervisione dall’alto. Ciò che accade a terra è affare
afghano, da risolvere fra coloro che devono “guidare” il Paese, nel modo
conosciuto in due decenni coi presidenti Karzai e Ghani oppure alla maniera dei
talebani, trasformati da nemici a interlocutori e mascherati con modi più
congeniali alla diplomazia dalle loro dichiarazioni di apertura a una società
dove ‘le donne possono studiare e occuparsi anche della vita civile’. Ma
l’unica attenzione che gli studenti coranici, buoni e cattivi che siano,
mostrano per la comunità sta nell’assegnarle un ruolo di vittima designata alle
proprie bombe, al proprio progetto di dominio, al proprio fanatismo mai messo
in discussione da nessun interlocutore a Doha e a Mosca.