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mercoledì 12 giugno 2019

La presa di Istanbul


A dieci giorni dalla ripetizione del voto per la municipalità di Istanbul, consultazione fissata il 23 giugno, i contendenti che restano gli stessi: İmamoğlu per il partito d’opposizione (Chp), già vincitore alle amministrative di fine marzo, Yıldırım per il partito di governo (Akp), scaldano i motori per il rinnovato confronto. Li scaldano coadiuvati dai rispettivi apparati di sostegno messi a disposizione dai due schieramenti. La sfida è simbolica. Il governo della metropoli turca sul Bosforo è più prestigioso di quello della capitale, dove il presidente-sultano Erdoğan s’è fatto costruire un palazzo degno d’una reggia ottomana. Il tema della ripetizione del voto, pur senza forzare i toni, è stato ripreso in un pubblico dibattito dal segretario repubblicano Kılıçdaroğlu. Per quanto poche rispetto agli otto milioni di elettori, le 13.000 preferenze in più ottenute dal candidato del suo partito, non potevano costituire nessuna pietra dello scandalo. Però l’inattesa sconfitta del fronte governativo, per giunta con un candidato corazzato da pregressi incarichi istituzionali, bruciava troppo. Da lì il ricorso dell’Akp. Eppure le motivazioni addotte dal Supremo Consiglio Elettorale per l’annullamento della consultazione, inizialmente basate su incerte espressioni di voto, diventate poi inadeguatezza di taluni addetti ai seggi che non risultavano in organico alla pubblica amministrazione ed erano perciò inabilitati al compito, son parse costruite ad arte. Il fenomeno, probabilmente presente anche in altre circoscrizioni elettorali su cui non s’è indagato o s’è chiuso un occhio, riporta alle urne soltanto i cittadini di Istanbul. Al di là di reali o pretestuosi cavilli il motivo di questo colpo di scena e di mano sta nel cuore dell’Akp che non vuole assolutamente perdere il controllo della città dove la sua storia è iniziata. La città erdoğaniana per eccellenza.
Domata dalla rivolta di Gezi park e sottomessa al progetto di farne il fantasmagorico proscenio liberista dell’Islam politico. Le innovazioni tecnologiche del raddoppio del canale del Bosforo, del treno sotterraneo che unisce la città occidentale a quella orientale quale ulteriore trait-d’union euroasiatico, ma anche il marchio musulmano che ha portato a ridosso della kemalista piazza Taksim una nuova immensa moschea, rappresentano la dedizione verso la sua città dell’uomo che ha scalato il potere nazionale ed è un presidio turco in quello internazionale. La metropoli che gli ha dato i natali nel quartiere popolare di Kasımpaşa, che gli permetteva di giocare al calcio, e giocare anche bene da semiprofessionista ed essere ragazzo di strada venditore di simit (focacce di sesamo), ma anche di studiare e lanciarsi in politica, prima come sindaco nel Corno d’Oro, quindi come leader assoluto.  Con quell’irruenza trasferita dalla gioventù all’età adulta, declamò i versi del sociologo Ziya Gökalp “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati” finendo diritto in galera, ma uscendone dopo un po’ e diventando vincente a furor di voti. Forse basta questo per comprendere come la manìa di grandezza conduca Erdoğan, il partito che gli sta attorno e quel pezzo di Turchia che lo segue come un’ombra plaudendo a ogni sua mossa, di rifiutarsi a cedere la città del sogno. Non solo quello sedimentato nei trascorsi centenari dello splendore che fu di Solimano, ma lo stesso senso di comunità riunita nel vatan di cui questo schieramento politico vuole farsi interprete. Per ampliare la presa egemonica da un biennio patria e sentimento nazionale sono diventati ideali rivisitati dall’Akp e strumenti ideologici per l’alleanza coi nazionalisti del Mhp. Il golpe fallito tre anni fa ha fornito al nuovo padre dei turchi il via libera per cercare aiuti parlamentari e rinnovato consenso nelle strade e nelle urne. Unici inciampi: inflazione e disoccupazione à gogo. Basteranno per eleggere un sindaco fuori dal coro nella città del sultano? Lo sapremo a breve.

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