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sabato 23 febbraio 2019

Doha, terzo atto afghano


Mentre s'avvicina l’atto terzo dei colloqui fra le delegazioni americana e talebana, previsto per il 25 febbraio sempre a Doha, nei giorni scorsi un comunicato del palazzo presidenziale di Kabul notificava la visita del gran cerimoniere di quegli incontri con Ashraf Ghani. Per lenire la solitudine presidenziale mister Khalilzad ha condotto con sé un codazzo di politici, giovani, studenti, membri della società civile, rappresentanti di non meglio identificati settori privati afghani. Un parterre itinerante ma non dialogante con gli americani. Il mediatore evidenzia come il processo di pace non sta finalizzando gli interessi di un solo Paese o di una sua parte etnica, cerca di appagare gli interessi di ciascuna componente presente nella regione. Il riferimento va esplicitamente al Pakistan, da sempre convitato di pietra di ciò che accade oltre i suoi confini occidentali. Ancora una volta a quel tavolo mancherà l’attuale governo afghano, tenuto fuori per volere talebano e non reclamato dagli statunitensi, tantoché non si sa cosa accadrà alle presidenziali del prossimo luglio, difese dall’uscente Ghani e osteggiate dai turbanti, disponibili all’ipotesi d’un governo ad interim. E disposti a parlarne con gli occupanti occidentali, non coi loro servitori locali. Bisogna ricordare che le parti a confronto si son date un tempo massimo di 18 mesi per sottoscrivere l’accordo. Otto sono già trascorsi.

Ora si riprende dai princìpi di non ritorno. Sul fronte talebano in testa c’è il ritiro dell’esercito occupante. Che riguarda certo le 14.000 presenze della Nato (per metà statunitensi, per altra parte divise fra i 38 Paesi delle coalizione coi 900 militari italiani), ma può riguardare anche i “contractors” che all’epoca del grande esodo del 2014 erano calcolati in 30.000 unità. Fra una chiacchiera e l’altra i funzionari Usa hanno detto che per ragioni di sicurezza di ambasciate e altro, almeno mille marines armati di tutto punto, dovranno comunque restare. Resta anche l’incognita delle basi aeree cui il Pentagono non rinuncia e che non saranno vuote. E allora? Allora tutto si patteggia e si mercanteggia. In fondo la “liberazione” del Paese ha prezzi da pagare e cifre da riscuotere e una volta saliti al rango d’interlocutori primari i taliban trattano sulle contropartite. Finora la rete di analisti locali ha individuato le seguenti: rimozione talebana dalla lista nera del terrorismo mondiale, rilascio di prigionieri (se ne calcolano almeno 10.000), apertura definitiva dell’ufficio di Doha, fine della velenosa propaganda contro l’Emirato dell’Afghanistan. Altra richiesta cocente risulta una nuova Costituzione poiché l’attuale, che i talebani considerano copiata da un modello occidentale, non garantisce un sistema islamico indipendente. La nuova Carta dovrebbe essere realizzata da religiosi, intellettuali, giuristi, studenti coranici.

Da parte americana si chiedono garanzie per escludere spazi territoriali a gruppi jihadisti come Qaeda e quelli attivi nella regione: Lashkar, Taiba, il movimento islamico uzbeko e il bombarolo Islamic State Khorasan Province, attivissimo negli attentati nella capitale per tutto il 2018, e comunque visto dai turbanti ortodossi come un indesiderato rivale. In realtà la collaborazione fra Osama bin Laden e talebani, sulla base del passato combattentistico del mullah Omar come mujaheddin antisovietico, è terminata da tempo. Non solo per la scomparsa dei due leader, ma per differenti prospettive assunte dai seguaci. Proprio l’invasione americana dell’Afghanistan e la cacciata degli studenti coranici dal governo di Kabul ha rilanciato questo movimento che si accredita della resistenza all’occupante e in 18 anni ha accresciuto reclutamento e presenza sul territorio. I finanziamenti che bin Laden elargiva grazie alle casse saudite col tempo non ha più allettato i talebani diventati autosufficienti grazie a traffico di oppio, tasse riscosse nelle province governate e dazi doganali nei trasferimenti di merci lungo le vallate che essi controllano. Altro tema scottante e attinente alla sicurezza è cosa fare dell’enorme (e grandemente inefficiente) apparato dell’esercito locale, cui per un decennio sono stati destinati “aiuti” e attenzioni occidentali. Andrà rilanciato? E le milizie talebane saranno disarmate o integreranno quella struttura?

Bisognerà anche capire chi sottoscriverà gli accordi visto che, come ricordavamo, una parte della politica ufficiale afghana è tagliata fuori dai colloqui. Da parte sua Ghani sostiene che a breve ci sarà una Loya Jirga delle donne, che converranno da 34 province. A suo dire ciò che serve per consolidare il processo di pace sono azioni condotte da cittadini, non dalle élite. Ma, al di là della boutade populistica, di quest’assise il presidente non può garantire neppure la sicurezza, seppure in questa fase i taliban colloquianti abbiano sospeso ogni azione militare. Però non è detto che chi dissente dalla Shura di Quetta non possa farsi vivo a suon di bombe, e non parliamo solo dei jihadisti dell’Iskp. La Loya Jirga che promette lo spiazzato presidente è, dunque, un moto personale o un desiderio per rientrare in gioco. I suoi sponsor per ora l’hanno ignorato. Mentre sul tavolo moscovita (c’è anche questo), accanto ad alcuni potentati locali sempre attivi, è apparso l’immarcescibile Karzai che sembra trovare udienza nei mediatori russi. Davanti a un’oggettiva debolezza nelle trattative della questione di genere e dei diritti civili, i talebani hanno proposto una propria bozza dei diritti affinché “venga garantita a tutta la cittadinanza l’accesso a educazione, lavoro, salute”. Il tutto allargato alle donne, secondo i rigidi princìpi della legge islamica. Forse i fondamentalisti potrebbero diventare un po’ più morbidi barattando una maggiore flessibilità con una legge d’amnistia.

Infatti propongono un’immunità giudiziaria per il passato politico e militare, a eccezione di vicende individuali con offese personali e, bontà loro, anche criminali. Fra le richieste circolanti sui tavoli degli incontri, menzionate da Khalilzad, ce ne sono alcune sostenute da politici si dice vicini a Ghani che pongono clausole imprescindibili per il modello di Paese futuro: unità e sovranità nazionali, integrità territoriale, un forte governo centrale e fondamentali diritti dei cittadini. Ma gli attori del tavolo di Doha non pongono questi temi al centro del dialogo, né s’interessano della libertà d’espressione rivendicata da un gruppo di giornalisti e da componenti della società civile. A far zoppicare le richieste, palesi o celate, dell’entourage di Ghani ci si mettono proprio alcuni esperti della comunicazione che hanno detto, e scritto, che il presidente ostracizzato dai talebani vorrebbe sedere a quel tavolo non per ricercare una via d’uscita pacifica alla crisi, bensì per rilanciare se stesso e il suo futuro politico che sembrano decisamente offuscati. Tratti personalistici  che, del resto, molti commentatori occidentali attribuiscono a Trump, interessato a sostenere i colloqui per rivenderne i risultati nella campagna presidenziale americana del 2020. Nella politica globalizzata nessuno fa niente per niente e gli interessi risultano sempre soggettivi.  

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