La crisi indo-pachistana può evolversi col gesto di ‘buona
volontà’ del rilascio d’un pilota indiano catturato vivo dai militari pakistani
intervenuti sul luogo in cui un caccia di Delhi era stato abbattuto. Mentre le
piazze indiane s’infiammano chiedendo la restituzione del comandante finito in
mani nemiche, mentre il premier Modi, che aveva voluto il raid punitivo oltre
confine, medita con proprio ministro degli Esteri nuovi passi militari che
mettono apprensione, il premier pakistano Khan spiazza tutti, anche i suoi
generali, con un gesto distensivo che comunque l’amministrazione indiana
sottostima considerandolo di routine. Comprendere ciò che i due confinanti
forzati vogliono fare è un piccolo enigma che crea grandi apprensioni.
Quest’ultime dovute alla fiamma che cova reciprocamente sotto ceneri, antiche e
più recenti, nelle reciproche estremizzazioni che i due attuali leader possono
cavalcare e anche per gli arsenali atomici detenuti da entrambi. Nella verifica,
dopo due giorni d’osservazione anche giornalistica, dell’annunciata azione
distruttiva dei covi d’addestramento del gruppo bombarolo Jaish-e Mohammad, che
sarebbe protetto in territorio pakistano, non sembra esserci ombra.
L’emittente Al Jazeera, il media più pronto a
inviare in loco suoi cronisti, ha raccolto testimonianze fra la popolazione dell’area
di Balakot. Quei racconti non lamentano vittime, solo qualche ferito lieve da
schegge di missile e tronchi d’albero. Infatti i flashes scattati nei due
giorni seguenti mostrano grandi buche sul terreni più o meno desolati.
Egualmente la madrasa, presunta base di reclutamento jihadista del gruppo JeM,
è integra. E allora Delhi ha solo minacciato e di fatto ha bluffato? Così
sembrerebbe. La stessa risposta dell’aviazione pakistana era un ‘atto dovuto’,
ma non puntuto. E tutta l’angoscia su una possibile escalation guerrafondaia
sarebbe una rappresentazione di timori più che di realtà? I conteggi esposti
dagli esperti militari attorno agli arsenali che computano testate nucleari:
110 per l’India con missili antichi del 2003 e recenti (K15 Sagarika), 130
quelle pakistane con modelli diversi, ma potenziale simile. Inoltre il gigante
indiano raddoppia tutto il resto: aerei da combattimento (oltre 2.000), tanks (4.500),
navi (300), surclassando i vicini per numero di soldati disponibili: quattro
milioni e duecentomila. Numeri e cose se restano inutilizzati non
impensieriscono civili e istituzioni, non solo nazionali.
Invece certe azioni, pur
non devastanti, proprio a uso della
cittadinanza interna sembrano rivolte. Sono state ricordate le prossime
elezioni indiane in cui Narendra Modi e il suo partito ultranazionalista
possono sminuire o addirittura perdere quel seguito che l’aveva condotti ai
vertici della complessa società indiana nel 2014. Perciò battere sull’orgoglio
nazionale, contro il detestato nemico frazionista che nel 1947 spaccò la
nazione, potrebbe tornare utile nelle urne. Alcuni analisti sono titubanti, ma
il tentativo ci può stare, come mostrano iniziative anche spontanee apparse in
questi frangenti. Chi sta smontando il possibile attrito è proprio l’outsider
diventato un anno fa presidente di quella che a tutti gli effetti è considerata
la nazione-bomba a orologeria: l’ex campione di cricket Imran Khan. Ennesimo
esempio dell’apertura della politica mondiale a figure estranee ed esterne ai
propri ambienti, sia quanto uomini della strada sia, come nel caso di Khan, di
elementi che hanno conquistato la notorietà su altri terreni. Comunque
l’attuale premier di Islamabad non è un totale principiante, fondava il partito
che l’ha lanciato al vertice del Paese (Pakistan Tehreek-e Insaf) più di
vent’anni fa.
Lo faceva grazie al patrimonio familiare e personale e, certamente,
sulla base d’una pianificazione del proprio futuro. Nelle consultazioni del
2018 gli sono state favorevoli le disgrazie del clan Sharif, con Nawaz
condannato a dieci anni di carcere per corruzione e il fratello Shehbaz non in
grado di rilanciare la Lega Musulmana. Ma soprattutto gli è valso il benestare
di due eminenze neanche tanto grigie della politica pakistana interna ed
estera: le Forse Armate e l’Inter-Services, componenti che dialogano coi capi
delle Intelligence e i ministri degli Esteri delle potenze mondiali. L’attuale
mossa para-conciliante con Delhi in un momento in cui potrebbe davvero
ripartire un contrasto a ripetizione, propone un altro enigma: prevarranno le recenti
maniere morbide e concilianti del populismo di Khan oppure i generali, maestri
di doppiogiochismo, tireranno ancora la corda fomentando il radicalismo
jihadista? Dal quale - è bene sottolinearlo - non è escluso Khan medesimo. A
metà anni Novanta, pur frequentando privé esclusivi di Londra, col suo partito sosteneva
e finanziava una madrasa da cui uscirono il mullah Omar e il leader della Rete
di Haqqani, il fior fiore del movimento talebano d’Afghanistan.