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martedì 15 gennaio 2019

Supercoppa italiana di calcio: l'olezzo dei soldi


La vicenda della Supercoppa italiana di calcio da giocarsi nuovamente all’estero - e che estero: quell’Arabia Saudita da anni al centro di polemiche per quanto fondamentalismo wahhabita finanzi, per quanta repressione interna e nella regione mediorientale produca - ripropone il meschino orizzonte del tornaconto di certe istituzioni sportive. In questo caso la Lega Calcio di serie A, nata un decennio addietro da una scissione, voluta dai Paperoni del pallone, dell’antica Lega Nazionale Professionisti che viveva dal secondo dopoguerra. Ricordare quest’operazione pilotata dai grandi club che disdegnavano la “zavorra” delle società di provincia, diventa necessario per capire il presente. Sempre più orientato sull’affarismo sfrenato che usa lo sport come un alibi, tanto da non risolvere i cento e uno problemi che affliggono un sistema dove ormai si praticano: riciclaggio, frode sportiva e non, doping, evasione fiscale, copertura di fenomeni violenti attuati da frange politiche neofasciste infiltrate fra le tifoserie. Coi governi e il Parlamento nel ruolo di Ponzio Pilato. In realtà buona parte di questi veri e propri tumori del calcio e dello sport, erano presenti anche prima della riforma del 2010, e riguardano soprattutto le grandi società. Ora la Lega, guidata da un presidente-banchiere rampollo d’una potentata famiglia palermitana, porta la finale fra Juventus e Milan nella cittadella dello sport che gli sceicchi sauditi hanno creato a 60 km dalla città di Gedda. Lo fa per interesse. Quel Paese, reso ricchissimo dai petrodollari a tal punto farli pesare potentemente nella geopolitica mondiale, offre ingaggi da capogiro per ospitare ogni sorta di manifestazione che serve fra l’altro a far familiarizzare il mondo degli spettatori con una nazione dai costumi a dir poco reazionari. Eppure nel gruzzolo milionario, ancor più golosi della Lega risultano i club. Son loro a spartirsi, fifty-fifty, il 90% dei 7 milioni di euro contabilizzati anche tramite i diritti televisivi. Alla Lega va il restante 10%. Premesso che i diritti televisivi si sarebbero incassati anche altrove, è il ‘non mostrato’ a rappresentare il benefit per presente e futuro. Anche l’Italia sportiva, con la Lega Calcio, coi due prestigiosi club, apre le porte alla diplomazia della chiacchierata petromonarchia che, fra un Grand Prix e un match, tuttora lapida e fustiga le donne. Si accondiscende all’abbraccio dell’inquietante principe bin Salman su cui pesa il recente omicidio d’un giornalista, fatto a pezzi all’interno del consolato saudita di Istanbul. Le polemiche sull’impossibilità delle nostre tifose di accedere da sole al “Re Abdullah Stadium” o farlo indossando il velo, e l’esatto contrario: a loro verrebbe permesso ciò che alle donne saudite non è consentito, sono falsi problemi. Nonostante la maschera della modernizzazione del progetto ‘Vision 2030’, il sistema saudita resta oppressivo e criminale. Ma c’è chi sottolinea una cruda verità: il business del calcio nostrano segue quel che da tempo fanno le nostre imprese. E i 23 milioni di euro per tre finali sono bazzecole rispetto al baratto: barili di greggio in cambio di armi da usare, ad esempio, sui ribelli yemeniti. Una certezza è lampante: l’Italia affaristica dà sempre il meglio di sé in ogni incontro. 



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