Gli occhi che si
cercano, le mani mosse in lontananza non sono un gioco. Comunicano spesso
disperazione, tristezza e angoscia per essere lì, segregati, ingiustamente
accusati, dopo mesi di detenzione e in tanti casi di tortura. E’ un video,
girato in un’aula egiziana di tribunale e pubblicato sul sito della Bbc in lingua araba, documenti che
probabilmente non vedremo più perché in quei luoghi, dove già da tempo pur in presenza di
pubblico che poi altro non sono che familiari dei detenuti, la stampa non è
ammessa. Allora ci si mettono i più giovani, indomiti masticatori di tecnologia, a
filmare con ogni mezzo e divulgare sui social media. La breve registrazione è
finita su Facebook, ma non si sa
quanto potrà restarci. Intanto fa proseliti, e divulga quel clima che purtroppo gli odierni
cittadini d’Egitto ben conoscono. Immaginiamo una figlia che allunga la mano e
gesticola, scrivendo sulla trasparente lavagna dell’aria forse lettere per
indicare una parola oppure numeri. Lei proietta idealmente l’arto verso
l’uomo rinchiuso in gabbia che gli risponde. Non mancano i sorrisi in questa
comunicazione tipica dello scambio fra detenuti e parenti. Non è bene bagnare questi attimi con le lacrime, che magari dentro l’orbita premono, però è giusto non mostrale
in un momento che è, comunque, d'incontro. Ti vedo, dunque sei vivo, non t'hanno
ucciso, non hanno piegato il tuo corpo né il sentimento. In genere sono
ragazze e giovani donne a tenere alto lo spirito sul lato opposto, fra i
rinchiusi della gabbia. Siedono accanto a soldatini dalla vista sperduta,
costretti in questo caso non a un ruolo sanguinario e assassino ma al meno ingrato compito di vigilare sul pubblico. Ciò che non riescono a trasferire espressioni profondissime e occhi
appassionati, lo dice la morbida gestualità di dita piegate a cuore, come fanno
le fidanzatine innamorate. E l’altra metà, se è un ragazzo, stravede, e
sorride, sorride finché può farlo se le membra non dolgono per i tanti colpi
ricevuti in celle da duemetriecinquanta per due, dove ci si sta dentro in
cinque. Dove si dorme a turno, distendendosi su un pavimento bagnato e
indossando gli stessi panni ormai puzzolenti da mesi. E’ una visione forzata, ma
rappresenta un’epifanìa, una sequenza di movimenti dolci dentro quei cubi a rete fitta
che lasciano a malapena passare la luce, così che i corpi, alcuni emaciati dai
digiuni, muovano anch’essi mani e braccia, tanto per rispondere o dire: sì, sono
vivo, lo sono ancora. E riuscire almeno a salutare prima che, perentoria, una voce annunci
con un grido l’entrata della Corte. Quella che può decidere la pena di morte.
Oppure la sepoltura nelle “Scorpion” già esistenti e da costruire.
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martedì 18 dicembre 2018
venerdì 14 dicembre 2018
Afghanistan, il caos elettorale abbraccia il caos politico
Sempre, e come sempre, in alto mare la conta dei voti dopo le
elezioni afghane. Tranne alcune province, dove peraltro i risultati sono
confortanti per alcune figure impegnate a difendere i diritti delle donne come
la senatrice Belquis Roshan rieletta a Farah, molte presentano ingorghi e
blocchi allo scrutinio. Addirittura in quella di Kabul incombe la proposta, avanzata
da un’agenzia politica, di annullare per irregolarità un milione di voti. La Commissione
Elettorale Indipendente ha fatto sapere che sorvolerà sulla richiesta che
avrebbe dovuto portare a un ritorno alle urne già da due settimane. Al
contrario fra qualche giorno la IEC dovrebbe certificare la bontà di seggi e
voti nella capitale. Del resto le lamentele avanzate da quest’agenzia
risultavano vaghe, non era descritta nei dettagli nessuna fra le accuse di
frode, e il presidente della IEC ha tacciato l’iniziativa come disgregante
rispetto al ‘volere popolare’. Peraltro la stessa commissione aveva già
riscontrato ritardi sul voto parlamentare in dodici province.
Questi ritardi appaiono una minaccia per le elezioni
presidenziali previste per il prossimo aprile. E rimandare la consultazione di
primavera provocherebbe un gran danno al governo Ghani tuttora impegnato sul
doppio terreno di scontro e trattativa coi taliban. Se ci fosse ancora chi
nell’ipertrasformismo della geopolitica si stupisse di quello che sembra un
doppio gioco, ma non lo è da ambo le parti, può venir tranquillizzato da quanto
appura l’ennesima inchiesta del prolifico network di ricercatori afghani che
apre un’ulteriore finestra sulle relazioni fra due fronti opposti che risultano, invece, tolleranti e collaboranti.
Tranne ammazzare periodicamente un po’ di civili, la cui sorte è ripetutamente
ignorata dagli uni e dagli altri. Se si va indietro nel tempo il comportamento
talebano dagli anni dell’occupazione statunitense (2001) e poi Nato (2003) va
plasmandosi alle varie situazioni. All’epoca della riorganizzazione sotto il mullah
Omar (2003-05) il movimento si proponeva come entità di raccolta e organizzazione
dell’insorgenza contro i nuovi occupanti.
Inoltre, con una presenza sul territorio, i turbanti riescono a
usare il vizio della corruzione amministrativa come punto di forza a sostegno
del proprio programma antigovernativo e di legame con le comunità locali. Dal
2006 viene elaborato una sorta di codice di condotta che discetta su parecchie
questioni. La precedente lotta indiscriminata alla scuola si trasforma in
disamina della scuola stessa che viene combattuta solo se si distacca dai
princìpi islamici, affermati ovviamente secondo un’interpretazione di parte. Dal
2009 i talebani si rapportano al ministero dell’Educazione per elaborare un
certo andamento dell’istruzione. All’epoca nel mirino fondamentalista entrano le
Organizzazioni non Governative, i cui contatti con la popolazione devono essere
autorizzati dalla leadership della Shura. Dal 2014, quando s’è consolidata una
presenza stabile del cosiddetto Isis afghano (di fatto talib dissidenti), la
cooperazione fra strutture governative e talebani è risultata frequente ed
evidente. E non parliamo di altri “servizi” che s’integrano e si sostituiscono.
Ecco un aggiornamento fornito dai ricercatori.
Negli ultimi mesi a Ghazni gli studenti islamici hanno raccolto
pubblicamente le tasse, a Kunduz inviano bollette elettriche ai clienti e
riscuotono gabelle dai trasportatori che passano per Zabul. Nell’Helmand
finanziano moschee, a Logar decidono assunzioni o licenziamenti di insegnanti
basandosi sui loro curricula. Stiamo parlando di province della nazione
afghana, non dei territori delle ben note Fata, governate in tutto e per tutto
dai clan talebani. Questo spiega
chiaramente gli assalti armati che mettono in scacco quei capoluoghi di
provincia dove i soldati di Kabul si sentono totalmente estranei. E’ bene
ricordare che città come Kandahar, sulla carta sotto il controllo degli uomini
Ghani, in realtà non lo sono affatto. E non è che il business presente sul
territorio resti fuori da un simile contropotere. Nel 2016 quattro compagnìe di
telefoni cellulari (due sono statunitensi, una è saudita), che distribuiscono
le comunicazioni a venti milioni di afghani sui trenta registrati ufficialmente,
hanno pagato una “tassa” per proseguire i propri affari. La minaccia era il
danneggiamento delle antenne di ripetizione.
Quest’anno un
documento governativo ammetteva che nel territorio dell’Uruzgan l’interesse
talebano si focalizzava su salute e sicurezza, quindi chi pagava loro il tributo poteva
accedere a quei servizi. Se si va a una lettura dei numeri forniti dal rapporto
annuale del Sigar (Special Inspector General Afghanistan Reconstruction’s) dietro
l’affermazione che il 78% delle province afghane è sotto il controllo
governativo c’è da notare che il 66% di
quel territorio vede una presenza talebana a vari livelli. Così seppure nella
graduatoria delle definizioni si confrontano le aree a pieno controllo dell’una
e dell’altra componente, la governativa supera quella talebana, ma la percentuale
più alta di territorio risulta quella contesa. Osservando la scheda allegata, nel
pur ampio settore verde - scuro quello a controllo governativo, chiaro a
influenza governativa - un’ampia fetta di popolazione paga, a vario titolo, un
tributo ai talebani che, comunque, in quelle aree riescono a riscuoterlo. Ciò
che gli analisti definiscono una ‘presenza ombra’ costituisce uno degli aspetti
più inquietanti dell’Afghanistan della sbandierata normalizzazione attraverso i
‘colloqui di pace’.
mercoledì 12 dicembre 2018
Storie dell’Egitto taciuto: Ahmer Sahi
La vicenda di Ahmer è una delle tante storie ignote della gente
d’Egitto vessata dal regime di Al Sisi. Storie sconosciute perché è impossibile
cercarle in una nazione che il regime costringe a vivere in stato d’assedio, con
l’informazione interna tacitata e quella esterna impossibilitata a lavorare,
come dimostra, tanto per citarne uno, il caso di Mahamoud Hussein, giornalista
di Al Jazeera detenuto a oggi da 722
giorni. Lo impedisce con minacce e arresti, comprensivi di torture
e conseguenze ancor più gravi. Nell’orizzonte disegnato dai militari che
governano col consenso del terrore, il monito è stato dettato dal 25
gennaio 2016, quando Giulio Regeni sparì nel nulla alla fermata Dokki della
metropolitana cairota. Chi non vuol fare quella fine deve evitare di ficcare il
naso nelle questioni nazionali, e qualsiasi impegno in tal senso viene considerato
un’ingerenza spionistica da estirpare con leggi speciali. Quelle che
probabilmente salveranno i cinque o venti indagati dalla procura di Roma da responsabilità dirette nell’assassinio
dello studioso friulano. Prima che Regeni finisse rapito, seviziato, ucciso dai
collaboratori di Sisi e Ghaffar, molti attivisti politici, dei diritti e
giornalisti avevano vissuto situazioni simili ad Ahmer Sahi che nel 2014 era
appena maggiorenne.
Una mattina venne bloccato dalla National Security con la semplice accusa
d’essere un simpatizzante del movimento ‘6 Aprile’. Questo, che prende il nome
dal giorno del 2008 in cui ci fu il grande sciopero industriale di al Kubra,
aveva guidato la rivolta anti Mubarak di piazza Tahrir, restando attivo anche
durante l’anno di presidenza Morsi e nei mesi seguenti la sua caduta. Ma dopo
aver attaccato la Fratellanza Musulmana con l’eccidio della moschea Rabaa
dell’agosto 2013, l’apparato militare e politico di sostegno a Sisi, iniziava a
colpire i gruppi laici fra cui gli stessi alleati post nasseriani e liberali. Nel
mirino coercitivo finivano anche i giovani ribelli della Primavera 2011, di cui
il gruppo ‘6 Aprile’ era una delle realtà più attive, che pure aveva
partecipato all’ubriacatura anti-islamica della raccolta di firme per chiedere
la rimozione di Morsi nel maggio-giugno 2013. I fermi e gli arresti,
giustificati da motivi di “sicurezza nazionale” diventarono legali nella primavera 2014 con un
pronunciamento della Corte Suprema del Cairo che parlava di “diffamazione delle
autorità interne e pericolo di spionaggio a favore di potenze straniere”.
Ecco, dunque, che le accuse rivolte a elementi
simili ad Ahmer si fanno gravissime. Così il ragazzo finisce in una di quelle
galere dove i poliziotti oltre ai colpi proibiti, alla ‘posizione del pollo’ inflitta al detenuto, riempivano la cella
d’acqua dopo aver collocato fili con corrente elettrica attiva. Centocinquanta
giorni di quest’inferno, dal 30 settembre 2014 al 29 gennaio dell’anno
successivo. Quindi un barlume: un mattino Ahmer sentì stridor di ferri e chiavi, nel giro di un’ora la sua cella s’apriva, l’ufficio detenzione gli aveva
fatto firmare delle carte e un sole, pur invernale, risplendeva sulla sua
testa. Sembrava un regalo, a quattro anni dalla rivolta che voleva cambiare
l’Egitto e non c’era riuscita. Però la liberazione di Ahmer durò un soffio.
Non s’accorse che continuava a essere pedinato e dopo qualche giorno venne
nuovamente fermato. Gli spiegarono che doveva pagare diecimila euro per una
liberazione definitiva. Grazie al giro di amici e aiuti familiari il giovane
trovò l’ingente cifra. Eppure l’angoscia l’assillava, pensò alla fuga in
Turchia, nazione che all’epoca rilasciava facilmente i visti. Pagò nuovamente,
pur sapendo che se il visto non gli fosse arrivato avrebbe perso il denaro.
Passavano le settimane, poi i mesi. Alla fine è stato così: nessuna
autorizzazione a causa di un accordo fra i governi dei due Paesi che non
concedevano reciprocamente permessi d’ingresso a ex detenuti politici. Ahmer dalle pene della prigionìa è
passato a quelle della depressione. Doveva obbligatoriamente restare in un
luogo che sempre più l’angosciava, perché nonostante la giovane età vedeva che
la sua nazione era addirittura peggiorata rispetto ai suoi ricordi infantili e di adolescente. L’Egitto diventava di per sé una galera,
un posto dove o sei omologato e servile (atteggiamento che, comunque, non
esclude possibili vessazioni e persecuzioni) oppure l’esistenza diventa un
inferno, e questo a prescindere dalla condizione socio-economica personale più
o meno disagiata. Se nessun posto al mondo è un paradiso, certo la situazione
egiziana precipitava sempre più. Lo stesso assassinio Regeni, faceva meditare
gli oppositori interni che, conosciuti e schedati, potevano in qualsiasi
momento subìre una fine altrettanto atroce. Un buco nero sempre aperto per tanti,
troppi egiziani.
giovedì 6 dicembre 2018
Al Sisi, tutto famiglia, potere e terrore
Il passo con cui, in perfetta solitudine, il procuratore di Roma
Pignatone e il vice Colaiocco indicano cinque ufficiali della Sicurezza
nazionale e dell’Investigazione giudiziaria egiziana e li iscrivono sul registro
degli indagati, rappresenta un momento importante nel percorso di giustizia per
l’omicidio di Giulio Regeni. Percorso in salita, perché gli inquirenti dovrebbero
ricevere il conforto dalla politica nazionale che finora non c’è stato. Si
potrebbe formulare una richiesta di estradizione che difficilmente verrà raccolta
sull’altra sponda del Mediterraneo visto ciò che hanno mostrato i vertici del
sedicente Paese amico. I giudici del Cairo non solo non hanno collaborato coi colleghi
italiani, ma ossequiosi con la politica interna hanno praticato un boicottaggio
sistematico d’ogni pratica inquirente. I cinque uomini indagati, pur divisi da
una scala gerarchica, sono comunque semplici esecutori. Il generale Sabir Tareq
risulterebbe il supervisore dell’operazione Regeni, Magdi Sharif Abdlaal, il
coordinatore. Osan Helmy e Ather Kamal, avrebbero ingaggiato l’ambulante-spia
Abdallah che lo studioso intervistava in qualità di rappresentante sindacale
della categoria. Mahmoud Najem, è un volgare scherano di Helmy. Bastano
costoro? Certo che no.
Questi sono l’anello basso e intermedio del sistema repressivo che
il presidente-generale al Sisi ha tessuto fra amici e parenti, nonostante ciò
che aveva dichiarato pubblicamente in più occasioni su famiglia e nepotismo. Secondo
quanto si vocifera insistentemente fra l’opposizione al regime, quella
carcerata e quella esule, proprio uno dei suoi rampolli è al corrente di certe operazioni extragiudiziarie
semplicemente perché le direttive partono dall’ufficio che presiede. E’ il
maggiore dei figli di papà che ha fatto carriera - e che carriera - nella
struttura dove il genitore s’era formato prima di diventare, peraltro sotto la
presidenza dell’islamico Morsi, ministro della Difesa. Si tratta di una delle Intelligence
un tempo definita State Security
Investigations Service, con oltre centomila dipendenti, e dopo la rivolta
di Tahrir trasformata in National
Security Agency con un numero doppio di agenti e collaboratori. Beh lì,
tanto per far capire le intenzioni claniste negate a voce ma ribadite da uno spirito
di doppiezza, papà Sisi ha infilato il primogenito Mahmoud, salito velocemente
ai vertici dell’apparato e ottima garanzia per suo padre che, come ogni
dittatore mostra tanti amici, ma teme quelli che amerebbero il suo posto.
Che gli interessi di famiglia si dovessero sviluppare negli apparati
della forza, perno della lobby militare egiziana, lo conferma il percorso del
secondogenito Mustapha, piazzato nell’organismo delle Informazioni generali, quello
tristemente noto col termine mukhabarat. La
struttura, diretta negli ultimi anni della presidenza Mubarak da Umar Suleiman,
un boia dalla faccia triste, si caratterizzava per le pratiche di sequestro,
tortura, sparizioni di oppositori e semplici cittadini. Questi finivano nelle grinfie
di quegli agenti che fanno ampio uso di delatori o provocatori prezzolati come
Abdullah, il rappresentante sindacale degli ambulanti che ha venduto ai mukhabarat il giovane studioso di
Funicello. Anche Mustapha ha compiuto una carriera rapida e brillante, non è al
vertice ma riveste comunque la carica colonnello della macabra struttura. Mentre
l’unica figlia Aya è moglie del figlio d’un generale amico di Sisi, Khaked
Fouda, il terzo rampollo del presidente, Hassan, in predicato per la
professione diplomatica è, per ora, solo marito della figlia di Mahmoud Hegazy,
capo di Stato maggiore del famigerato Consiglio Supremo delle Forze Armate, la
struttura che durante le fiammate di Tahrir ha gestito, insanguinando le strade
con centinaia di morti, la fase della caduta di Mubarak fino alle elezioni del
giugno 2012. Anche il vecchio raìs, oggi plurinovantenne e scampato a condanne
a morte ed ergastoli, aveva collocato qua e là i figlioli Alā e Gamāl, ma non
negli apparati di esercito e polizia.
Il primogenito è un imprenditore, un tempo favoritissimo
dal padre e dai sodali diventati suoi ministri come Shafiq. Quest’ultimo nella
rivolta del 2011 fu accusato di accaparramento di beni pubblici tramite le
cariche ricoperte in qualità di generale dell’aeronautica. Con lui Alā gestiva
una serie di traffici corrotti e ruberie a danno dell’erario nazionale. Il più
giovane Gamāl, invece, s’era speso nella sfera pubblica e nelle intenzioni
paterne, avrebbe dovuto subentrargli alla presidenza, a coronamento di
quell’eredità del potere che il clanismo mediorientale ha istituzionalizzato. Anche
Sisi, da militare bugiardo che fa il contrario di ciò che afferma, ha pensato
al futuro dei virgulti di casa e al proprio presente. E poiché d’intrighi s’è
macchiato, e li ha suggellati col sangue d’una parte della cittadinanza, ha
piazzato i cresciuti pargoli nelle strutture che contano per la propria
sicurezza più che per quella nazionale. Come premettevamo il generale teme di
finire spodestato, magari da un golpe bianco o armato che sia, ordito da
qualche collega. Fedeli finora gli son stati Sidqi Subhi, ex ministro della
Difesa ora in pensione, il generale Abbas Kamel, custode di tanti suoi segreti,
Faraj Shehat, direttore dei Servizi militari, Mahmoud Shaarawi, ex direttore
della National Security, ora passata ad Hamid Abdallah, Mohammed Farid Tihami, responsabile
apparato delle Informazioni generali, dove lavora Mustapha. E il ministro Magdi
Abdel Ghaffar sodale in tanti affari, compreso il caso Regeni. E qui che i pm
italiani troverebbero le motivazioni degli omicidi politici che funestano
passato e presente d’Egitto.
mercoledì 5 dicembre 2018
Leyla, affamare il corpo per nutrire gli ideali
E’ uno sciopero della
fame che lei stessa ha definito irreversibile e definitivo sin dal momento
dell’annuncio, circa un mese fa. La deputata kurda Leyla Güven, rieletta nella provincia
di Hakkari lo scorso 24 giugno, nonostante si trovasse già in galera dove
l’aveva condotta a fine gennaio 2018 un’operazione repressiva indiscriminata
del regime erdoğaniano, è decisa a portare la sua protesta sino alle estreme
conseguenze se il governo turco non risponderà a precise richieste. Il rifiuto
del cibo è rivolto a riaccendere la luce sul caso del detenuto sepolto vivo:
Abdullah Öcalan, leader del Partito dei lavoratori kurdi con cui l’allora
premier, e ora presidente turco, colloquiava per interposta persona cercando un
percorso di pacificazione. Sembrano passati decenni dalla rottura di quelle
trattative, invece son solo cinque anni durante i quali tutto è stato accantonato
ed è caduto nel dimenticatoio del più bieco realismo politico. Anni intensi e duri
di scontro e repressione verso la comunità kurda e l’opposizione interna, schiacciate
entrambe come altri nemici del grande capo, i gülenisti. Tante le vicende
accadute nel cuore anatolico e nelle terre di confine, verso la Siria e l’Iraq,
dove i kurdi sono presenti, creativi e combattivi con le proprie proposte
politiche odiate dalle varie sigle jihadiste insediate in loco e dalle milizie
fedeli ad Asad. E mentre i militanti del Rojava si son visti attaccati da
molteplici nemici, chi vive in Turchia subisce il soffocamento d’ogni libertà,
anche quella di rappresentanza come accade ai deputati eletti nel Meclis. La
clamorosa rimostranza della Güven punta a denunciare anche il protrarsi di
questo clima che soffoca ogni diversità d’opinione nel Paese riconducendo tutto
a un presunto pericolo terrorista. Da oggi il suo esempio è ripreso da
attivisti e democratici che in sostegno di questa lotta entrano in sciopero
della fame in varie città.
lunedì 3 dicembre 2018
Egitto: la protervia del regime impunito
Definire regime, e regime losco, l’attuale cricca di militari,
poliziotti, giudici, mukhabarat e baltagheyah (per chi non lo sapesse gli
ultimi due nomi stanno per agenti dell’Intelligence e picchiatori di strada
prezzolati) che governa l’Egitto è l’evidente conseguenza dell’intrigo che
manifesta l’apparato statale d’una nazione pur gloriosa. In realtà la lobby
delle stellette ha dettato la recente storia di quel Paese dai primi anni
Cinquanta, ma pur fra la poca luce e le tante ombre non era scesa così in basso
come nella gestione instaurata da un uomo dal sorriso mite e dalle trame
sporchissime: Abdel Fattah al Sisi. La sua persona, i suoi ministri
(principalmente l’intoccabile dell’Interno Ghaffar, quello degli Esteri
Shoukry, della Difesa Zaki e prima di lui il fedelissimo Sobhi, della Giustizia
Hossam) risultano garantiti contro ogni azione di giustizia, interna ed
esterna, per comportamenti criminali compiuti nell’esercizio di funzioni
repressive più che politiche. Tutto ciò è assolutamente legale, ratificato per
legge dalla scorsa estate, quando venne fatto votare all’addomesticato
Parlamento una proposta sottoscritta quasi all’unanimità (solo otto i voti
contrari) che rendeva imperseguibili costoro e i propri servitori responsabili
delle stragi e del terrore seminati dopo il golpe bianco del 1° luglio 2013.
Quel terrore sigillato dall’eccidio della moschea di Rabaa e
ramificatosi con tutte le persecuzioni dell’attivismo politico,
dell’informazione giornalistica, della difesa dei diritti sino alla persecuzione
perfino di chi fotografa, filma o semplicemente parla bollandolo come “spia”. Oltre quarantamila egiziani sono sepolti nelle
galere vecchie e di nuova realizzazione, fra loro nomi noti e semplici cittadini,
della cui sorte i parenti non sanno nulla. In questo clima da “colonna infame”
giudici e boia possono rendersi protagonisti d’ogni angheria che conservano
ruolo e forcaiolo scopo finale sia quando condannano, sia nelle situazioni in
cui la sorte di chi finisce nel loro mirino è segnata da esecuzioni
extragiudiziarie, come nel sanguinoso caso di Giulio Regeni. La protervia di
questo regime gli fa rispondere ai pubblici ministeri italiani, che la scorsa
settimana additavano sette agenti della National Security del Cairo come
sospettati del rapimento dello studioso, che “nel regime egiziano non esiste un registro dei sospettati” e
pedinare una persona, com’essi facevano con Regeni, “rientra nel proprio
lavoro”. La supponenza del ‘sistema al Sisi’ alimentata dalla vile
subordinazione dei governi italiani, per nulla fermi nel contestare
politicamente l’assassinio del nostro connazionale, potrebbe produrre a breve
una diretta difesa dell’omicidio di Stato, per ragioni di sicurezza nazionale.
Ai carnefici del mondo non manca mai la faccia.
domenica 2 dicembre 2018
Muhammed, faccia di spia
L’accusano d’essere una
spia, venuto coi suoi 19 anni a raccogliere informazioni dopo essere partito
dalla Libia. Muhammed Fathi Abulkasem, di cui la famiglia denuncia la scomparsa
dopo l’atterraggio all’aeroporto di Alessandria d’Egitto, è un giovane studente
residente coi parenti a Manchester. L’allarme è stato lanciato dal cugino di
Muhammed, informato dei particolari poi diffusi tramite l’Associated Press. Il giovane, durante l’atterraggio, aveva filmato
dall’oblò dell’aereo col proprio telefono cellulare un elicottero militare. Non
si sa se qualcuno l’abbia notato denunciando il fatto agli agenti o se la
perquisizione e il seguente scandaglio siano stati casuali. Di fatto il ragazzo
è stato accusato di spionaggio, seppure quelle immagini mostravano ciò che
qualsiasi passeggero del volo di linea aveva potuto osservare. La famiglia
Abulkasem si domanda dove sia stato condotto il figlio nelle mani della polizia
ormai da una decina di giorni. I timori riguardano casi come quello di Giulio
Regeni, oppure alle prigioni speciali dove gli arrestati spariscono nel nulla.
Ultimamente si vocifera dell’apertura d’un nuovo luogo di detenzione, stavolta all’esterno
della capitale, totalmente sotterraneo. Ormai fotografare o filmare è diventato
estremamente pericoloso in terra d’Egitto, visto che si può venire incastrati e
accusati di spionaggio. Tale accusa è certa se nell’inquadratura finiscono persone,
mezzi, luoghi concernenti forze armate e forze dell’ordine.
giovedì 29 novembre 2018
Omicidio Regeni, la lezione della Procura di Roma
Di fronte al collaborazionismo della Farnesina nella gestione
Alfano (e governo Gentiloni), al silenzio omertoso di palazzo Chigi abitato da
Renzi, Gentiloni e ora da Conte sui mille e passa giorni di bugie e depistaggi
che pesano come macigni sull’omicidio di Giulio Regeni l’unica a muoversi è la
Procura di Roma di Pignatone e Colaiocco. I due magistrati hanno iscritto nel
registro degli indagati cinque mukhabarat
del regime di Al Sisi che, nel mese di gennaio 2016, pedinavano il ricercatore
friulano per poi rapirlo, torturarlo, assassinarlo. Si tratta d’un atto dovuto
in base alle prove raccolte dai carabinieri del Ros, pur fra ostacoli viscidi
come il limo del Nilo che sia la politica, sia la magistratura egiziane hanno
frapposto in trentatre lunghi mesi di reiterata reticenza. Lo spazio
dell’iniziativa è insignificante da un punto di vista legale, poiché la nostra
magistratura non ha giurisdizione sul crimine avvenuto nel Paese arabo, ha però
indirettamente un valore se vogliamo politico. Non secondo lo schema della
‘magistratura che fa politica’ sostenuto da chi odia l’operato dei giudici
perché ha reati da nascondere.
Ha una ricaduta sul piano nazionale, che ha visto governi e
ministri di svariate tendenze (Pd, Ncc, e ora figure tecniche sponsorizzate dai
Cinque Stelle) fare passi di sostanziale ipocrisia oppure non fare nulla per
mettere politicamente alle corde uno Stato
che fa dell’assassinio e della repressione indiscriminata la sua ragion
d’essere. Ha, e può avere, un risvolto anche internazionale se altre componenti
della vita pubblica italiana legata a interessi economici - come le aziende di
Confindustria - in accordo coi ministeri preposti, intraprendessero la via
della protesta civile, che migliaia di attivisti dei diritti praticano dalla scomparsa
di Regeni, chiedendo verità e giustizia sul caso. Possono farlo tramite il
disimpegno economico in terra d’Egitto e nelle prospicienti coste mediterranee
dove l’Ente Nazionale Idrocarburi, tanto per citare la nostra azienda più nota
e prestigiosa, lavora per il miliardario affare del gas del giacimento Zohr.
Tutto ciò avrebbe certamente un’eco mondiale. Secondo taluni meschini
commentatori sarebbe un autogol.
Beh, la nazione delle mille ‘partite del cuore’ se
solo volesse potrebbe permetterselo, poiché rinunciare a commesse in risposta a
un delitto commesso diventa la più alta delle risposte morali. Questi segnali sono,
e possono essere, utili per far dibattere sullo scenario internazionale sull’anomalia
del governo liberticida egiziano, come dovrebbe accadere per il regime saudita
che ha smembrato con la sega per ossa il corpo di Jamal Khashoggi. Di fronte a
simile cannibalismo geopolitico, i leader del G20 che da domani a Buenos Aires
pensano e discutono solo di monete e affari hanno essi stessi sulla coscienza la
condizione delle vittime già cadute in quella spirale omicida e, non mutando
l’orizzonte, delle prossime che ci finiranno. Poiché Il Cairo, come Riyadh,
celano i misfatti dei molti Regeni e Khashoggi liquidati con cinismo seriale. Rompere
il cerchio di tale repressione delle idee, che rappresenta il motivo portante
di quegli strazi, è compito della politica, dei partiti, dei governi, che
invece sempre più risultano inerti e in altri casi complici o addirittura
solidali coi mandanti.
martedì 27 novembre 2018
I sussurri di bin Salman, le grida di qualche piazza
Sussurra bin Salman, ai dignitari che finora l’hanno ospitato nel
Bahrein, ad Abu Dhabi e Il Cairo. Gli Stati della reazione con cui il principe
in odore di omicidi stringe sempre più buone relazioni non tanto commerciali,
ma geopolitiche. Quelle che l’amministrazione della Casa Bianca ha ratificato
nel Medio Oriente che si contrappone alla mezzaluna sciita. Con lo sceicco
Khalifa bin Zayed e il generale Sisi la sintonia repressiva è assoluta, anche
quando prende la via totalmente extralegale di sparizioni sanguinarie. Mbs non
s’è scrollato di dosso l’odore del sangue del giornalista nemico Jamal
Khashoggi, sul cui omicidio e sulla cui sparizione del cadavere ha
responsabilità dirette, ma già cerca di riproporsi al mondo come se niente
fosse accaduto. L’attuale tour in alcuni Paesi arabi del Golfo e del
Mediterraneo dovrebbe portarlo a fine mese anche al G20 in programma in
Argentina, coi grandi della terra che s’occupano di dominio economico e
strategico-militare. Bin Salman è pronto a fare la sua parte, a ogni costo.
Dopo gli abbracci ricevuti fra monarchi e presidenti dittatori l’arrivo
a Tunisi in programma per il pomeriggio di oggi può produrre qualche pensiero
alla popolarità del sovrano in pectore, visto che già l’immagine è in caduta
libera per tutti gli intrighi legati al crimine relativo all’opinionista del Washington Post smembrato e liquefatto
nell’acido. Giovani tunisini già da ieri hanno protestato per le vie della
capitale contestando l’arrivo di un ospite da loro totalmente indesiderato. Non
è di questo parere il vecchio presidente Essebsi, propenso alle aperture che la
comunità internazionale continua a riservare al discusso saudita, che gli proporrà
fra l’altro esercitazioni militari congiunte. Attivisti dei diritti
sottolineano la scia repressiva di cui si rende protagonista la maggiore
petromonarchia del Golfo sia nella propria società, sia con ingerenze in
nazioni confinanti come lo Yemen, dove porta guerra e favorisce la persecuzione dell’etnìa
Houthi prendendola per fame.
L’infamia di bloccare gli aiuti umanitari verso questa popolazione è
praticata da oltre un anno. Da parte loro attivisti politici tunisini non
dimenticano i favori che i Saud hanno riservato all’autocrate Ben Ali, riparato
nel Golfo con tutto il clan familiare e trascinadosi i capitali sottratti alla
nazione. Sono passati otto anni e il dittatore di Tunisi, responsabile del
massacro di centinaia di manifestanti in quei cortei che nel dicembre 2010
diedero avvìo alle primavere arabe, non è stato estradato. Aiutato e coperto da
un regime che fa del sopruso, della coercizione, dell’intrigo, dell’assassinio
di Stato un progetto per il presente e il futuro, seppure mascherato con
presunte modernizzazioni. I tunisini s’indignano, vedremo se l’eco giungerà in
Argentina e rimbomberà altrove. Un’attivista afferma che bin Salman dovrebbe
essere inseguito, ovunque si rechi, dal disgusto e dalla rabbia dei cittadini
del mondo. Non è il solo, ma è bene non tralasciare e soffocare con le grida i
suoi sussurri.
martedì 20 novembre 2018
Demirtaş, galera a vita
Sordo a ogni appello di
libertà il presidente turco Erdoğan ha respinto l’appello della Corte europea
dei diritti umani gli aveva rivolto in merito al caso Demirtaş. Il
co-presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp) venne arrestato due anni
or sono a seguito dell’estensione a ogni opposizione politica della legge
marziale adottata dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016. Il
bersaglio primo era stata l’organizzazione gülenista diffusa in molte strutture
dell’apparato statale: esercito, polizia, magistratura, istruzione, burocrazia
alta e bassa. Ma accanto alle decine di migliaia di persone arrestate ed
epurate dai pubblici incarichi il governo dell’Akp e il presidente in persona
hanno cercato una vendetta diffusa, rivolta anche a parlamentari
dell’opposizione com’è Demirtaş. A lui si attribuiscono rapporti col Partito
kurdo dei lavoratori, messo al bando in Turchia e considerato organizzazione
terrorista anche da Stati Uniti e Unione Europea. Per questo motivo il leader
dell’Hdp è minacciato d’una pena di 142 anni di detenzione. I vertici dello
Stato turco snobbano l’invito della Corte di Strasburgo, sostenendo di non sentirsi
affatto condizionati da quegli
orientamenti che considerano le accuse rivolte a Demirtaş un’ingiustificata
interferenza con la libertà di espressione e di opinione. Così le porte delle
galere turche, che rinchiudono giornalisti, intellettuali, oltreché oppositori
politici, serrano anche la libera circolazione e il ritorno all’attività
politica del quarantacinquenne capo della formazione che fra il 2013 e il 2015
aveva compiuto un’avanzata diventando il terzo partito turco. Una posizione
conservata al cospetto dell’elettorato da Demirtaş in persona che, pur
carcerato, ha riportato l’8,5% dei consensi in occasione delle blindatissime
consultazioni del giugno 2017 con cui Erdoğan ha avvìato il presidenzialismo
più autoritario della storia nazionale.
giovedì 15 novembre 2018
Sisi, le macchie d’un sistema che bisogna raccontare
Il presidente golpista egiziano al Sisi era due giorni fa a
Palermo al vertice sulla Libia organizzato dal governo italiano. Sosteneva la
posizione d’un militarista come lui, il generale Haftar, boss delle milizie cui
s’affida la Francia per riportare ‘ordine’ nel Paese del dopo Gheddafi che nel
2011 ha contribuito a scompaginare. Un’assise che aveva ben altro a cui
pensare, discutendo di macro geopolitica rispetto agli scempi che, comunque,
proprio questa geopolitica provoca nelle singole comunità e realtà nazionali.
E’ ovvio che nessun premier, nessun rappresentante istituzionale sia uscito dal
tema, riferendosi anche a questioni che coinvolgono la vita quotidiana nei
Paesi che si dice di voler aiutare. Lo potrebbe fare la libera stampa, quella
odiata dai politici di ieri e di oggi. Ma al di là della levata di scudi contro
gli sguaiati epiteti rivolti a quel che resta, in ogni caso, una corporazione
fior fior di colleghi non hanno preso la palla al balzo per ricordare - magari con
un servizio, un articolo, il semplice richiamo d’una colonna - la macchia
insanguinata che il generale egiziano porta con sé, qualsiasi abito indossi.
La macchia dell’omicidio Regeni, perpetrato dai suoi
collaboratori, e coperto con miserabili depistaggi dai vertici del Cairo,
depistaggi e omertà che tuttora seguono il loro corso in opposizione al
desiderio di libertà e giustizia richiesta dai genitori del ricercatore e da
migliaia di attivisti in Italia e all’estero. Avrebbero potuto - i colleghi e
le loro preziose testate che occorre difendere dagli assalti di chi ama il
bavaglio - raccontare storie come quella delle ultime trentuno vittime,
speriamo solo incarcerate (sic), che il ‘sistema Sisi’ ha prodotto nel grande Paese
arabo. La vicenda risale solo a due settimane fa ed è stata evidenziata dalle
Ong, che sempre con maggiore difficoltà denunciano la repressione diffusa in
Egitto, perché da tempo anch’esse sono colpite da questa repressione. Nella
notte del 1° novembre scorso la sessantenne Hoda Abdelmonem, legale presso la
Suprema Corte Egiziana di Cassazione, ha subìto nella propria abitazione del
Cairo l’irruzione di venti agenti della National Security Agency. E’ stata
portata via senza mandato d’arresto, nonostante le rimostranze della figlia
maggiore, ed è rinchiusa in una delle prigioni che “ristabiliscono l’ordine” in
quel Paese.
L’avvocato veniva fermata, assieme a una trentina di persone, per
aver offerto copertura legale ai familiari di individui, che egualmente erano
state fermati, sequestrati e di cui non si sa più nulla. L’accusa è: attentato
alla sicurezza della nazione e, nei casi più gravi, terrorismo. Prima di lei,
prima del rapimento e dell’assassinio di Regeni, sono stati effettuati migliaia
di sequestri illeciti, è il sistema che al Sisi ha ereditato da Hosni Mubarak,
altro militare che ha usato la carica di presidente per difendere la lobby e
schiacciare la popolazione che gli si opponeva. La figlia di Abdelmonem che ha
assistito al sequestro, oltre a manifestare preoccupazione per la madre malata
e bisognosa di cure per il rischio di trombosi, ha riferito ad amici che gli
agenti cercavano in casa documenti relativi alle procedure, proprio di
sparizione di persone, trattate dall’avvocato. Dopo aver perseguitato per anni
l’opposizione interna, sia islamica (la Fratellanza Musulmana, ma non i gruppi
salafiti) sia laica, l’attacco del regime è stato rivolto all’informazione, e
ora all’attivismo dei diritti (anche dei gruppi caritatevoli) e ai legali che
lo sostengono. Quando sono coinvolti soggetti noti come Abdelmonem questi
sequestri riescono, in qualche modo, a venire a galla. In tanti altri casi
no. Ma il silenzio risulta sempre complice.
mercoledì 14 novembre 2018
Talebani di lotta e di governo: nuovi orizzonti
Aver mantenuto per due anni segreta la scomparsa del
mullah Omar, deceduto per tubercolosi a Karachi nel 2013, aveva un senso per i
taliban. Provava a quietare gli animi. Alle differenze fra la componente
afghana e quella pakistana dei turbanti si sommavano ulteriori spaccature e
diversificazioni che sarebbero venute a galla nella successione e nei tentativi
di raccordo fra i vari gruppi. Dopo l’annuncio della dipartita dell’uomo-simbolo,
la Shura impiegò mesi prima d’indicare in Akhtar Mansour la nuova guida. E
subito avvenne la frattura con Mohammad Rasoul staccatosi dalla maggioranza
talebana, che comunque perdeva quasi immediatamente il nuovo capo, ucciso in
un’imboscata dai droni statunitensi che dall’alto ne seguivano l’auto in
viaggio fra Afghanistan e Pakistan. Si parlò di un’operazione gestita dalla
Cia, con l’aiuto in quel caso dell’Isi pakistana, che evidentemente non gradiva
la leadership prescelta dalla maggioranza degli studenti coranici armati.
Rasoul formò un organismo denominato Emirato Islamico
dell’Alto Consiglio dell’Afghanistan, considerato da vari osservatori una
pedina iraniana in terra afghana. Il fatto che in alcune circostanze il gruppo
avrebbe simpatizzato con azioni estere dell’Isis prospetterebbe un diverso
orientamento, sebbene Rasoul abbia più volte affermato che per il Daesh in
territorio afghano non ci sia alcuno spazio. Ultimamente il portavoce di
Rasoul, il mullah Abdul Niazi ha attaccato il dialogo aperto a Mosca fra l’Alto
Consiglio di Pace Afghano e i talebani che dopo Mansour sono guidati da
Akhundzada. Questi, pur considerato un mullah molto conservatore, è giunto a
spedire propri rappresentanti sia in Qatar sia nella piazza di colloqui. Mansour
nella sua breve vita da leader non si mostrava disposto a dialoghi, e forse
anche per questo è stato liquidato.
Akhundzada sembra riprendere il doppiogiochismo del più
illustre Omar, infatti i talib hanno proseguito azioni militari pur nei mesi in
cui le trattative con vari attori erano (e sono) aperte. Loro risultano pur sempre
più tattici dei tatticismi studiati da chi li vuole usare. Fra i grandi la Cina
fa parte delle potenze consultate attorno a presente e futuro dell’Afghanistan,
e per gli affari in corso (sfruttamento di giacimenti di rame e terre rare
offerto per i prossimi 25 anni) s’affida al modello statunitense con tanto di
governo fantoccio che patteggia una soluzione politica coi taliban purché il
business prosegua. Bisogna capire quale sarà il ruolo di Mosca. La politica
estera russa dell’ultimo quadriennio in Medio Oriente è risultata al tempo
stesso pragmatica, cinica e vantaggiosa (per sé).
Putin ha ridato spazio alla grandezza, un tempo sovietica,
seppure nel cuore dell’Asia quel passato riverberi la sua immagine peggiore,
basata su invasione e scacco subìto da quella che era vista, in patria e non
solo, come un’Armata invincibile. Sebbene tanti volti e pensieri, ormai passati
al mondo dei più che diedero vita alla resistenza mujaheddin, divenuti poi
signori della guerra e in certi casi talebani, si tramandino sentimenti anti
russi, alla stregua degli attuali sentimenti anti americani, potremmo scoprire aperture del Cremlino ai fondamentalisti. Ricambiate da quest’ultimi.
Nella frammentazione della galassia dei turbanti, nel doppiogiochismo della
geopolitica, nella tattica dei veti e nelle dinamiche mai morte di amici e nemici
fra le parti, l’orizzonte afghano potrà proporre versioni aggiornate di
talebani di governo e di combattimento, a favore di potenze mondiali e
regionali. E’ già successo, può continuare. Gli unici per cui tutti costoro non
combattono mai sono i cittadini afghani.