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giovedì 15 novembre 2018

Sisi, le macchie d’un sistema che bisogna raccontare


Il presidente golpista egiziano al Sisi era due giorni fa a Palermo al vertice sulla Libia organizzato dal governo italiano. Sosteneva la posizione d’un militarista come lui, il generale Haftar, boss delle milizie cui s’affida la Francia per riportare ‘ordine’ nel Paese del dopo Gheddafi che nel 2011 ha contribuito a scompaginare. Un’assise che aveva ben altro a cui pensare, discutendo di macro geopolitica rispetto agli scempi che, comunque, proprio questa geopolitica provoca nelle singole comunità e realtà nazionali. E’ ovvio che nessun premier, nessun rappresentante istituzionale sia uscito dal tema, riferendosi anche a questioni che coinvolgono la vita quotidiana nei Paesi che si dice di voler aiutare. Lo potrebbe fare la libera stampa, quella odiata dai politici di ieri e di oggi. Ma al di là della levata di scudi contro gli sguaiati epiteti rivolti a quel che resta, in ogni caso, una corporazione fior fior di colleghi non hanno preso la palla al balzo per ricordare - magari con un servizio, un articolo, il semplice richiamo d’una colonna - la macchia insanguinata che il generale egiziano porta con sé, qualsiasi abito indossi.

La macchia dell’omicidio Regeni, perpetrato dai suoi collaboratori, e coperto con miserabili depistaggi dai vertici del Cairo, depistaggi e omertà che tuttora seguono il loro corso in opposizione al desiderio di libertà e giustizia richiesta dai genitori del ricercatore e da migliaia di attivisti in Italia e all’estero. Avrebbero potuto - i colleghi e le loro preziose testate che occorre difendere dagli assalti di chi ama il bavaglio - raccontare storie come quella delle ultime trentuno vittime, speriamo solo incarcerate (sic), che il ‘sistema Sisi’ ha prodotto nel grande Paese arabo. La vicenda risale solo a due settimane fa ed è stata evidenziata dalle Ong, che sempre con maggiore difficoltà denunciano la repressione diffusa in Egitto, perché da tempo anch’esse sono colpite da questa repressione. Nella notte del 1° novembre scorso la sessantenne Hoda Abdelmonem, legale presso la Suprema Corte Egiziana di Cassazione, ha subìto nella propria abitazione del Cairo l’irruzione di venti agenti della National Security Agency. E’ stata portata via senza mandato d’arresto, nonostante le rimostranze della figlia maggiore, ed è rinchiusa in una delle prigioni che “ristabiliscono l’ordine” in quel Paese.

L’avvocato veniva fermata, assieme a una trentina di persone, per aver offerto copertura legale ai familiari di individui, che egualmente erano state fermati, sequestrati e di cui non si sa più nulla. L’accusa è: attentato alla sicurezza della nazione e, nei casi più gravi, terrorismo. Prima di lei, prima del rapimento e dell’assassinio di Regeni, sono stati effettuati migliaia di sequestri illeciti, è il sistema che al Sisi ha ereditato da Hosni Mubarak, altro militare che ha usato la carica di presidente per difendere la lobby e schiacciare la popolazione che gli si opponeva. La figlia di Abdelmonem che ha assistito al sequestro, oltre a manifestare preoccupazione per la madre malata e bisognosa di cure per il rischio di trombosi, ha riferito ad amici che gli agenti cercavano in casa documenti relativi alle procedure, proprio di sparizione di persone, trattate dall’avvocato. Dopo aver perseguitato per anni l’opposizione interna, sia islamica (la Fratellanza Musulmana, ma non i gruppi salafiti) sia laica, l’attacco del regime è stato rivolto all’informazione, e ora all’attivismo dei diritti (anche dei gruppi caritatevoli) e ai legali che lo sostengono. Quando sono coinvolti soggetti noti come Abdelmonem questi sequestri riescono, in qualche modo, a venire a galla. In tanti altri casi no. Ma il silenzio risulta sempre complice.

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