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martedì 21 agosto 2018

Kabul, Eid al Adha fra le bombe


Simbolo per simbolo, mentre il presidente Ghani parla nel giorno della festa del sacrificio (Eid al Adha) che avvìa in tutto il mondo islamico il pellegrinaggio verso i luoghi sacri, i jihadisti afghani sparano granate. Sui palazzi della Kabul blindata, che intoccabile più non è da tempo immemore, seppure sia tuttora il cuore d’una condizione in itinere che vede convivere occupanti, collaborazionisti, signori delle guerra vecchi e nuovi, talebani e concorrenti del locale Stato Islamico, tutti sulle spalle del popolo afghano. Mentre i colpi di mortaio che centravano angoli pregiati della città, risollevando ai più anziani il ricordo di quando Massud e Hekmatyar si sparavano dalle montagne che circondano la capitale, la diretta di Tolo tv trasmetteva le parole del presidente con sottofondo di boati. Compreso il suo “rassicurante” commento: “Se pensano di metter sotto gli afghani a suon di missili, si sbagliano”. Capire chi avrà la meglio non è cosa scontata, di sicuro Ghani non veste i panni dell’uomo delle certezze. L’azione, stavolta senza vittime, se non quattro miliziani colpiti da due elicotteri dell’aviazione afghana (altri cinque si sono arresi) aveva solamente una funzione dimostrativa. Tanto per contraddire le autorità in un momento solenne dallo stesso punto di vista religioso, fattore che quasi mai rientra fra le priorità jihadiste.
Ghani parlava anche di pace, dei colloqui proposti ai talebani, dell’amnistia che vuole attuare per ammorbidire i reiterati dinieghi del mullah Akhundzada. Del resto quando nella primavera 2016 quest’ultimo sostituì l’amico Mansoor, da poco eletto nuovo leader dell’intera Shura e che comandi statunitensi pensarono immediatamente di far saltare in aria con un drone, gli analisti avevano preannunciato l’integrità dell’ex combattente, diventato durante il governo talebano giudice di Kandahar. Akhundzada pone come condizione per avviare colloqui il ritiro totale delle truppe Nato e la chiusura delle nove basi aeree americane. Una chiarezza che aveva già fatto scuotere la testa ai vertici di Cia e Pentagono.  Perciò la proposta di Ghani è un’araba fenice, oppure un mezzuccio, peraltro inefficace, per tirare avanti fino alle elezioni di ottobre. A frustrare ancor più i suoi tentativi giunge la notizia d’una mossa diplomatica russa: il ministro degli Esteri Lavrov invita i taliban a un tavolo di trattative dai primi di settembre. Oltre al fantoccio Ghani, colpita sarebbe anche la Casa Bianca che si vedrebbe all’angolo in un Medio Oriente sempre più a gestione russa.
Certo, nel curriculum personale Haibatullah Akhundzada vanta un passato d’integerrimo mujaheddin antisovietico. Non so quanto spazio darebbe a un giro di pagina nei confronti di uomini d’apparato dell’ex Unione Sovietica. Lavrov, che lì intraprese la carriera diplomatica, non ha avuto come Putin legami col Kgb (che organizzò l’invasione del 1979), ma è nota la rigidità del chierico attuale guida dei talebani ortodossi. Di lui dicono sia anche un uomo di parola, basta convincerlo. Per questo Ghani insiste sino a perdere ciò che gli resta della poca dignità istituzionale, spera di convincerlo a entrare nel governo. Chissà quale diavoleria dovrebbero, invece, proporgli i russi che dopo la Siria tentano la carta della pacificazione anche in Afghansitan, puntando sulla rivalità fra taliban e i turbanti dissidenti del Khorasan, come vogliono chiamarsi. La richiesta centrale di Akhundzada starebbe benissimo al Cremlino: smobilitare quelle basi aeree che negli anni della loro occupazione né Breznev né Andropov fecero costruire. Lo fece George W. Bush che non brillava per strategia vincente. Ma l’idea che gli americani mollino quanto di più prezioso hanno ricavato in diciassette sanguinosi anni di “scarponi sul suolo” sembra fantascientifica. I colloqui verteranno su altro. Se mai si faranno.

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