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giovedì 30 agosto 2018

Di Maio da Al Sisi “Uno di loro”


E’ più vicina alla pantomima d’un marcato doroteismo che a qualsivoglia istinto geopolitico la visita compiuta ieri dal vicepremier Luigi Di Maio al presidente egiziano Abdel Al Sisi. Senza un motivo esplicito, se non quello che taluni commentatori hanno individuato in una smania di concorrenza mediatica con l’altro vice premier nostrano o peggio con lo smarcarsi, parlando d’altro, da cogenti problematiche interne sul lavoro, il responsabile del dicastero che s’occupa anche di sviluppo economico ha trovato in questo tema il salvacondotto per colloquiare col generale-dittatore direttamente al Cairo. Infatti gli investimenti italiani in terra egiziana sono stati uno degli argomenti dell’incontro. Gli interessi dell’Eni nel mega affare del giacimento di gas Zohr, scoperto da tempo nelle acque territoriali egiziane del Mediterraneo, erano nel cuore dei governi Renzi e Gentiloni, restano tali anche per l'esecutivo Conte. Di Maio non l’ha negato, commentando con la stampa il succo della chiacchierata cairota che ha lusingato il presidente-generale.

Il vicepremier italiano, sentendosi egli stesso compiaciuto dell’incontro ravvicinato, sottolineava come buona parte dei discorsi hanno riguardato la vicenda Regeni, i suoi ‘misteri’ la sua incompiutezza. Ha poi riferito l’affermazione di Al Sisi secondo cui Regeni è “uno di noi”. Definizione non sappiamo se più criptica, perversa o – ahinoi – beffarda. Le intenzioni della casta militare di cui Al Sisi è immagine ed espressione sul caso Regeni è noto: difendere i responsabili di quello scempio, dai vertici alla base, perché tutti rispondono ai comandi repressivi che il regime impartisce da cinque anni. Dalla presa del potere suggellata col  terribile massacro della moschea Rabaa. Da quel migliaio o più di cadaveri il governo del Cairo ha inanellato altre uccisioni, sparizioni, arresti rivolti contro chi manifesta, contesta, s’oppone o semplicemente informa l’opinione pubblica e, come nel caso del ricercatore friulano, cerca di comprendere cosa accadeva in quel Paese che sognava la thawra ed è finito nel lager di Tora e nel buco nero del terrore diffuso.

Questo modello di nazione reazionaria, anche peggiore di quella incarnata per un trentennio dall’uomo forte Mubarak, è l’ultimo caposaldo di Washington nel Medio Oriente arabo, assieme alla falsamente cangiante dinastia Saud. Gli intenti restano immutati: praticare interessi imperialisti pur in scenari di parziale mutazione, impedire trasformazioni interne favorevoli alle classi deboli, soprattutto se queste rivendicano diritti, miglioramento delle condizioni di vita, redistribuzione della ricchezza. Ciò che alla fine del 2010 molte piazze domandavano, in Tunisia, Egitto, Bahrein, Siria, Marocco. Le tanto sbeffeggiate primavere arabe, che mai sono state rivoluzioni, avevano in corpo fame e disoccupazione; in mente senso di giustizia contro corruzione, ruberie, nepotismo; nel cuore il desiderio di rompere il cerchio della paura che schiacciava la dignità individuale con lo spettro di finire come Khaled Saeed, il Cucchi egiziano. Questo spettro è tornato, in molti angoli mediorientali. In Egitto ha solo parzialmente cambiato volto, perché i crimini di Sulayman e Tantawi li compiono Sisi e i suoi aguzzini. Regeni è sì uno di loro: una delle loro molteplici vittime.

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