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sabato 7 luglio 2018

L’attivista Cattafesta e il regime che non vuole intrusioni


Dopo dodici giorni Cristina Cattafesta è rientrata in Italia. La presidente del Cisda, fermata il 24 giugno a Batman (Turchia) dov’era in qualità di osservatrice elettorale invitata dal Partito Democratico dei Popoli, quindi trasferita in un centro di migrazione ed espulsione a Gaziantep, è stata restituita ieri all’affetto dei familiari e delle sue compagne. Il fermo, operato da agenti delle forze dell’ordine in base a controlli detti di routine, in realtà si è diretto su figure ben individuate quali erano gli osservatori internazionali, coinvolti a vigilare sulla regolarità delle elezioni. In diverse località del sud-est, dove si concentra l’elettorato kurdo, c’erano stati fermi a seguito di controlli simili. Nessuno, però, era stato trattenuto. Il blocco dell’attivista italiana, nota nell’ambiente della cooperazione internazionale per il lavoro svolto con l’ong Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), è parso rivolto a ostacolare la presenza degli osservatori nei seggi. Ha, altresì, assunto il sapore d’un monito lanciato dal governo dell’Akp agli operatori dei diritti: la vostra presenza non è gradita nella Turchia a una dimensione creata a suon di repressione dal presidentissimo Erdoğan.
Il doppio successo ottenuto alle elezioni di due settimane fa blinda un regime che ormai usa il Parlamento solo come maschera di una democrazia, ma lo mutila delle funzioni operative in virtù d’un presidenzialismo totalitario. Con esso Erdoğan controlla la sfera legislativa e quella giudiziaria, oltre alle forze armate e tutti gli apparati della sicurezza nazionale. Lo spostamento ancora più a destra del partito Akp già di per sé conservatore, l’alleanza col nazionalismo parafascista dei ‘Lupi grigi’ che, coi voti del Mhp ha consentito un anno fa di far passare nel Maclis la riforma costituzionale varando il presidenzialismo ora vigente,  e lo scorso 24 giugno ha rilanciato verso un successo elettorale il partito di maggioranza, diventa di fatto un ulteriore soffocamento per il pluralismo. In realtà il multipartitismo in Turchia esiste. Formalmente non ci sono né partito unico, né quelle dittature militari che il Paese ha conosciuto in più occasioni dagli anni Sessanta in poi. Però l’opposizione, le altre formazioni politiche vivono sulla pelle un’oppressione per non essere conformi alla maggioranza elettorale.
Soprattutto l’opposizione di sinistra e filo kurda ha subìto nell’ultimo biennio una compressione della libertà politica ed esistenziale, com’è accaduto al co-presidente Hdp Demirtaş incarcerato, assieme a decine di deputati del suo gruppo, con l’imputazione, mai provata, di prossimità al Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk), considerato un’organizzazione terroristica. Ciononostante alle recenti consultazioni il sostegno alle liste Hdp della copiosa minoranza kurda è stato ampiamente confermato da un 11.5% che ne fa la terza forza politica interna. Eppure la linea repressiva erdoğaniana, forte d’un ampio consenso nel Paese, vuole cancellare questa diversità, incarcerarla, ghettizzarla, intimorirla, isolarla da contatti di solidarietà internazionale. Perciò  si cerca di bloccare simili rapporti, di limitarli o impedirli. Per questo Cristina Cattafesta è stata pretestuosamente internata per dodici giorni, quale lugubre monito per il futuro suo e di qualsiasi attivismo partecipe. Il messaggio dice: non venite in Turchia, non ficcate il naso nel nostro sistema, altrimenti rischiate fermi o arresti. Le indirette imputazioni possono essere la volontà di vedere e sapere, di raccontare come il sultano tratta quei sudditi che non si sottomettono alla sua autocrazia.

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