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giovedì 29 marzo 2018

Presidenziali egiziane: legittimare il dittatore


La legittimazione del dittatore tramite la blindatura delle presidenziali, volta a tenere sigillato il Paese per i prossimi anni, ha concluso il percorso. Com’era accaduto nel 2014, il generale golpista Abdel Fattah al-Sisi riavrà il consenso popolare grazie alla diffusa consapevolezza che tutto ciò serve alla nazione. Per settimane la martellante propaganda mediatica di giornalisti asserviti e stelle dello spettacolo e dello sport ossequiose, ha ripetuto: “Siamo con il nostro Paese e con il nostro presidente”. Lui, presidente certamente rieletto, non era più uno sconosciuto. Le incognite di quattro anni fa erano svanite dentro certezze assolute: un sorriso pacioso che cela a stento un pugno di ferro e un cuore ancor più duro, rivolti agli oppositori, ai comunicatori, alle migliori menti d’Egitto di cui, la legge del comando che l’ispira, si fa beffa. Anzi, chiunque obietti, dubiti, osi parlare viene visto con fastidio, isolato, privato della libertà se non addirittura della vita. Con questi presupposti ottenere il pieno del consenso e bissare il successone di quattro anni addietro, diventa semplice. Chi non si convinceva con la propaganda paternalista sull’uomo giusto che guida la nazione per il bene del popolo, lo capiva col clima intimidatorio su cui neppure gli osservatori internazionali impegnati in alcuni seggi campione dei 13.700 predisposti hanno potuto tacere. Dunque, Sisi presidente col 92% dei consensi. E’ lui il partner che l’Occidente vuol mostrare nei summit mediorientali, che servirà nell’asse d’acciaio stabilito con l’uomo implacabile dell’instabile terra libica: il generale Haftar. Sisi è il leader che non dispiace a Israele e che il sovrano di fatto della dinastia Saud, l’iper realista Bin Salman, condurrà per mano attraverso i propri piani finanziari e geopolitici regionali.  

Chi è interessato alle cifre (che saranno certe, forse, il 2 aprile) può confrontarle con quelle delle ultime tre elezioni: nel 2005 Mubarak vinse contro Abdel Aziz Nour con l’88% dei consensi, votava il 23% degli iscritti. Nel 2012 Morsi prevalse su Shafiq col 51.7% e il 52% dei partecipanti, mentre nel 2014 Sisi vinse contro Sabahi col 97% e votò il 47% dei chiamati alle urne, in realtà fu il 15%. Però l’operazione camuffamento, che aveva prolungato le consultazioni proprio per la scarsa affluenza a seguito del boicottaggio lanciato dalla Fratellanza Musulmana, raggiunse lo scopo prefisso. Principalmente si cercava un concorrente morbido che accreditasse il ‘confronto democratico’ da inchiodare su una percentuale di consenso infinitesimale. Allora fu il post nasseriano Sabahi, stavolta si è trattato del liberal-sissiano Moussa. Un boicottaggio non solo dell’estinta, almeno agli occhi pubblici, Brotherhood c’è stato anche stavolta. L’aveva indicato a gran voce Aboul Fotouh, e pur non scandendolo apertamente il generale Anan, entrambi esclusi dal confronto con motivazioni pretestuose. Conoscere le percentuali reali di voto e d’astensione da quelle parti è sempre approssimativo, per la palese opera d’occultamento dei dati compiuta dal ministero dell’Interno che umilia il ruolo indipendente del Comitato elettorale. Di fatto viene ribadita quella spaccatura esistente dal 2011 che contrappone la lobby militare, e chi si stringe attorno a essa per interesse, adesione ideale, paura, e gli oppositori al regime dei raìs, incarnata dalla fazione islamica della Fratellanza da tempo fuorilegge e perseguitata e dagli oppositori laici, essi stessi perseguitati. Una polarizzazione deleteria per gli interessi dei più deboli, ma di fatto esistente.

Per tamponare l’astensione la giornata di ieri ha visto all’azione gli esattori di multe (500 lire egiziane, cioè 28 dollari) per chi non s’era recato alle urne. Sono bastate minacce e azioni per ‘addomesticare’ parecchi elettori dell’ultim’ora che fanno salire il quorum su parametri accettabili, tanto per salvare la faccia del consenso al nuovo faraone. Non erano servite a molto neppure le sbandierate presenze dei primi due giorni che avevano visto susseguirsi gli inviti al voto del premier di comodo Ismail e la presenza al seggio delle due maggiori autorità confessionali entrambe favorevoli al regime: il grande imam di Al-Azhar El Tayeb e il papa della chiesa copta Tawadros II. Anche nel terzo giorno del voto, svoltosi in totale assenza di atti violenti (dopo l’attentato con autobomba compiuto sabato scorso ad Alessandria e costato la vita a due poliziotti)  l’informazione televisiva ha ripetuto il mantra del “voto libero e giusto”. Altra nota di colore per invogliare la cittadinanza ai seggi è stata la distribuzione di cibo, messo a disposizione da alcune catene alimentari, come sostegno materiale allo stress dell’attesa per deporre la scheda nell’urna. Inflessibili i sostenitori della Fratellanza che ideologicamente hanno accettato l’indicazione del boicottaggio e delle contromisure sanzionatorie. Il loro pensiero andava all’unico presidente frutto d’una reale consultazione che l’Egitto contemporaneo ha conosciuto, quel criticabile Mohamad Morsi che da anni languisce in galera. Alla stregua di tanti suoi colleghi di partito ma, riferiscono fonti vicine alla Confraternita, malmesso per ragioni di salute e a rischio vita proprio per il carcere duro cui è sottoposto. 

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