La lunga marcia kemalista ha avuto successo.
Quasi un mese di tragitto a piedi, partendo dal cuore anatolico della capitale
per finire con un’immensa manifestazione sul Mar di Marmara. Sulla pur decentrata
spianata di Maltepe, nella Istanbul asiatica ben lontana dal centro storico, l’omino
bianco leader dei repubblicani, l’alevita Kılıçdaroğlu, ha arringato non solo i
propri attivisti. Ha parlato a una componente eterogenea di cittadini: senza
partito, cani sciolti come i trascorsi contestatori di Gazi park, laici e
comunisti. Secondo fonti governative mescolati c’erano anche militanti del Pkk
e gülenisti, ma l’affermazione sembra viaggiare a metà strada fra denuncia e paranoia. Questi soggetti politici, che
esistono, risultano, i primi da due anni in reciproco conflitto armato con le
forze turche della repressione; i secondi da dodici mesi al centro delle purghe,
attive tuttora a quattro giorni dal fatidico 15 luglio, primo anniversario d’un
golpe provato e fallito. Invece il contraccolpo delle epurazioni ha portato in
galera cinquantamila cittadini, ne ha emarginati centotrentamila, attuando
licenziamenti, pensionamenti, spingendo a dismissioni volontarie e fughe. Di
fatto il presidente Erdoğan, l’ingombrante avversario che Kılıçdaroğlu non
nomina mai, non solo resiste all’interno controllando Parlamento, magistratura,
forze armate e stampa, ma ha riacquisito credito internazionale e centralità
nelle varie crisi mediorientali, con un’ultima mano tesa all’emiro al-Thani. Ha
pure la capacità di riunire un gran numero di oppositori. I più vari.
In
quest’occasione, snobbandoli, li ha fatti sfilare, controllati a vista da
migliaia di poliziotti. Ciascuno nel proprio ruolo appare soddisfatto. I protestatari,
partiti in sordina quindi cresciuti nelle adesioni attive, hanno realizzato una
marcia gandhiana senza incidenti. Hanno mostrato la forza e il coraggio di
cittadini soffocati da un anno di stato d’emergenza che cuce bocche, blocca
gambe, soffocando finanche i pensieri. Questo pezzo di Turchia non è entrata
nelle case dei turchi islamisti, perché emittenti e testate filogovernative non hanno acceso i riflettori
sull’evento. Quel che trapela proviene da fonti esterne e social media. Il
governo dell’Akp si vanta della propria tolleranza che, a suo dire, conferma
una democrazia presente nel Paese con la sola negazione di detrattori, filo
golpisti e terroristi. Eppure il deputato del Chp Enis Berberoğlu resta in
galera. Un Tribunale gli ha affibbiato venticinque anni di reclusione per aver
fornito notizie secretate al quotidiano Cumhuriyet,
avrebbe potuto rischiare l’ergastolo o peggio, per tradimento e attacco alla
sicurezza della nazione. Ma in galera restano in migliaia, compresi i deputati
della Repubblica, fra cui un nutrito numero di onorevoli dell’Hdp, il partito filo
kurdo, i cui presidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, arrestati nello
scorso novembre, sono accusati di terrorismo. In questi giorni Demirtaş, che
poteva essere ascoltato dalla Corte, non è stato ammesso in aula perché si
rifiutava di farsi ammanettare durante il tragitto dal carcere al Tribunale.
Dichiarava: “Sono ancora un membro del
Parlamento turco in servizio attivo con tanto d’immunità. Trovo che la pratica
sia illegale e immorale”.
Taluni
attivisti kurdi, che hanno partecipato alla marcia, ricordano che quando i loro
leader furono arrestati, troppi democratici non si mobilitarono né proferirono
parola. Non vogliono sollevare polemiche, ma ricordare che la repressione è
generalizzata e distinzioni di partito diventano capziose. Nell’ordinata
protesta di questi giorni sigle e simboli di parte sono stati esclusi, ci si
ritrovava sotto la mezzaluna stellata della bandiera nazionale, che a certi
marciatori sta stretta seppure non hanno rotto le file. Ovviamente la domanda
di cosa accadrà dopo se la pongono in tanti. Dal palco l’omino dalla camicia
immacolata che lanciava fiori ha definito la mobilitazione “il passo della rinascita, per rompere il
muro della paura”. Eppure già il solo isolamento mediatico pesa come un
macigno e difficilmente il governo, che sottolinea d’aver permesso la protesta,
prenderà in esame i punti in questione. Inoltre nella sfida delle piazze, che
già in altre circostanze ha visto Erdoğan ricercare con ostinazione il
confronto, si prepara la manifestazione dell’orgoglio liberatorio e della
fedeltà allo Stato che dovrebbe tenersi a giorni. Lì l’odierno padre putativo,
che non è più l’Atatürk scongelato dai kemalisti e condotto per via quale unico
simulacro, sarà il presidente stesso, rappresentato, stilizzato, fotografato e
materializzato su un altro palco. I fedelissimi della Turchia erdoğaniana
fremono per pareggiare l’adunata e mostrare ostinatamente una forza contraria e
superiore.
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