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lunedì 19 giugno 2017

Voglio uccidere i musulmani


Nella testa del conducente-vendicatore, bianco, forse britannico - cattolico, protestante, ebreo o non credente non importa - Finsbury Park si prende la rivincita su Westminter e London Bridge. “Voglio uccidere i musulmani” è l’essenza di un pensiero che se per ora può contare sull’esempio di un ‘lupo solitario occidentale’ magari darà vita a gruppi di fondamentalisti anti islamici che in geopolitica esistono già, organizzati in eserciti, prima che in gruppi paramilitari. Quest’ultimi in periodi vicini e lontani della Storia hanno rappresentato drammatiche realtà, tutte giustificate dall’immediato orizzonte degli eventi, e poi ripensate con parziale ammissione di colpa, anch’essa non sempre scontata. Le sete omicida trasformata in atto dall’ennesimo attentatore londinese, che ha lanciato l’automezzo della follìa su una folla di fedeli uscita da una delle ultime preghiere collettive dell’annuale Ramadan, è qualcosa di già scritto e formulato in soluzione alternativa “per non soccombere” da teorici della politica del razzismo muscolare e da intellettuali che cavalcano il tema con raffinata scrittura. Un plot ricamato attorno all’intreccio del sanguinario Islam jihadista che sgozza e spappola sotto le ruote le esistenze, simili nel tran tran metropolitano, diverse nei princìpi dei sacri libri, degli infedeli. Così i fedelissimi alla ritualità della morte trovano spazio, motivo e missione anche sul fronte opposto.
Vestono in tutto e per tutto l’ideale del crociato, contro cui i miliziani della mezzaluna hanno lanciato una guerra che dev’essere di attacco continuo, fino a schiacciare l’avversario. Il sindaco di una Londra stordita, Sadiq Khan, la premier di una nazione barcollante, Teresa May, pur nella boria dell’Impero che fu, possono rappresentare l’immagine del politico occidentale ubriaco fra eventi che non governa più. Come i colleghi di un Occidente che fra comprensione, mediazione, chiusure, parziali o totali, a inarrestabili flussi migratori, mostra soprattutto l’inefficacia d’un sistema politico-economico che poco integra e tanto scava in diversità sociali, alternando ghetti a scatole cinesi dove la convivenza fa a pugni con le tradizioni che ciascuna etnìa, fede, comunità considera irrinunciabili. Ovviamente c’è chi lavora per un dialogo, di per sé difficilissimo, ma è una minoranza. Perché tanti dei presunti incontri, rapporti, dialoghi, aperture ruotano esclusivamente attorno al business che oggi unisce, domani può dividere. Mentre la macro storia parla il burocratese diplomatico di facciata, che quando non s’accorda sfocia in contrasto senza soluzione di continuità, le teorie degli untori dello scontro fra civiltà, sui media mainstrem ne siamo assediati, forniscono carburante ai combattenti di un odio che deve diffondersi. E non potrà che proseguire se tutto, come sembra, resta invariato.

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