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giovedì 15 giugno 2017

Afghanistan, il ritorno dei marines

La Casa Bianca in accordo col Pentagono ufficializzerà a breve un consistente rilancio del conflitto di terra in Afghanistan. Con tanto di scarponi e uomini al suolo, come ha fatto per tredici lunghi anni, dal 2001 al 2014. Sarebbe più corretto dire che il Dipartimento della Difesa convince il presidente americano a rinfocolare una guerra in corso, avallando il piano che il responsabile militare Nato in loco, il generale Nicholson, ha preparato da mesi. Del resto è facile far combaciare l’orientamento dell’America First con l’orgoglio bellicista mai accantonato e il business delle armi. Così era, così sarà. E magari aiuterà Trump in un momento difficile, difficilissimo, a rischio impeachment dopo le rivelazioni del Washington Post sul Russiagate. L’unica contraddizione è che da tempo le guerre gli States non le vincono, forse anche per questo si vendicano destabilizzando con altri mezzi certe aree geopolitiche dove la loro marginalizzazione è palese. Il presidente afghano Ghani, inventato e tenuto in vita dagli Usa per garantire spazio a linee strategico-politiche spesso ondivaghe, ha avviato una campagna per riformare il ministero dell’Interno da lui definito “il cuore della corruzione nel settore sicurezza”. A suo dire, sarà un passo strategico per garantire l’agibilità spaziale che gli attentati nella zona più controllata di Kabul, dimostrano non esistere.
L’incapacità direttiva ed esecutiva e gli alti tassi di vittime fra le fila dell’Afghan Melli-e Ourdou rappresentano uno degli anelli deboli d’un progetto che finora è costato moltissimo a Washington e agli alleati occidentali. Però se si scorre all’indietro la mappa dei programmi, oltre che dei buoni propositi in genere utilizzati dalla politica per giustificare i costosi finanziamenti alle “missioni di pace”, ci si accorge che gli schemi  sono saltati tutti. Esercito e polizia afghani hanno raggiunto cifre considerevoli: 170.000 unità nel 2011, fino a raddoppiarle nel 2014, data dell’exit strategy obamiana. Ma accanto alle continue defezioni e alla permeabilità delle truppe, ripetutamente infiltrate dai talebani, il bilancio totalmente negativo per inefficienza e inaffidabilità degli uomini in divisa locali si lega inesorabilmente a nuovi progetti. Quelli di reiterato impegno e occupazione territoriali che i tutori occidentali si ripropongono per garantire i propri interessi. Nel giro d’un decennio la storia ripete lo stesso corso: era il 2008 quando, assumendo il mandato, il 44° presidente statunitense premio Nobel della pace, raddoppiava e poi triplicava il numero dei marines impiegati in quel Paese superando le 100.000 unità.
Ciò produsse spese folli, di cui le casse statali in piena crisi Lehman brothers patirono gli effetti negativi, visto che ciascun soldato costava ai contribuenti un milione di dollari annui. Inversamente porre una divisa sulle spalle di un afghano (fra le reclute più numerosi sono i pashtun, seguiti da tajiki e hazara) che riceve uno stipendio medio di 160 dollari mensili fino ai 230 dollari se è posizionato in zona ad alto rischio, costava annualmente fra i 12.000 e i 25.000 dollari. Un risparmio significativo che però presenta il lato oscuro dell’inefficienza. Fra l’altro, come riferiscono le stesse note ufficiali, a questo quadro s’aggiungono le non edificanti ruberie e quell’avvelenamento morale che costringono Ghani a porre in cattiva luce un sistema che non riesce a controllare, ma di cui fa parte. In tal senso la sua denuncia diventa un’auto afflizione, visto che i quadri e i vertici delle locali Forze Armate, i creatori o prosecutori della catena corruttiva, solo in qualche caso sono scelti dagli americani. Da una parte la situazione si tira dietro tare della società afghana, che la guerra certo incancrenisce. Dall’altra si tratta di una casistica nota in ogni latitudine: funzionari o ufficiali approfittano di posizioni di potere anche limitate per trarre vantaggi personali, praticando usurpazioni e frodi e imponendo o ricevendo tangenti. Gli effetti sono comunque devastanti.  

A queste gravità s’aggiungono gli interventi che gli uomini in uniforme possono praticare attorno a grandi business come quello internazionale del commercio dell’oppio. Un’attività che ovviamente prosegue ed è floridissima, basta compulsare i resoconti annuali dell’agenzia Unodoc. Insomma, da decenni le situazioni si ripetono sia in campo bellico sia sul versante socio-economico e tutta la macchina degli aiuti militari, diretti e indiretti, serve ad alimentare quella grande industria mondiale delle armi di cui gli Stati Uniti detengono quasi la metà del business (700 miliardi di dollari nel 2016). A detta di molti analisti il pianto di coccodrillo del presidente afghano sui difetti d’un sistema difensivo inefficace deve fare i conti anche con la rigidità della diarchia che lo unisce e l’oppone al premier Abdullah, ingessando la situazione dei vertici Forze Armate locali, scelti non per meritocrazia ma per protezione politica e appartenenze etnico-tribali. Entrambe sono indissolubilmente legate alla criminalità presente nei vari livelli dell’esercito afghano, un fattore di cui si lamenta Nicholson. E’ il classico circolo vizioso attorno a cui viaggia l’ultima rappresentazione di una nuova legge afghana che per volontà dei “riformatori” interni e dei “supervisori” esterni non cambierà nulla. E mentre la pantomima prosegue, i marines preparano gli zaini.

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