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giovedì 4 maggio 2017

Iran vecchio e nuovo nelle presidenziali

TEHERAN - Il pesantissimo attacco verbale che Mohammad Bagher Qalibaf ha rivolto a Rohani durante il primo dibattito pubblico delle presidenziali può celare molto più d’un personale desiderio di rivincita. Il sindaco della capitale iraniana, che nel 2013 raccolse oltre sei milioni di preferenze ma fu battuto dall’ayatollah pragmatico, è certamente ambizioso e nella sua autostima avrà spesso pensato di usare l’attuale carica come trampolino di lancio per più prestigiosi obiettivi. Alla maniera di Ahmadinejad, magari augurandosi di far meglio per il Paese. Nelle scorse settimane Qalibaf aveva ritirato la propria candidatura, poi l’ha riproposta con l’assenso del Consiglio dei Guardiani e della Guida Suprema. Questo fa pensare a una pianificazione della componente conservatrice per orientare il voto su una figura laica, lui medesimo, oppure su un chierico: Ebrahim Raisi. Quest’ultimo ha un passato da inquisitore. Fra il 1985 e il 1988 venne nominato procuratore di Teheran, ricevendo indicazioni dallo stesso Khomeini per gestire processi e sentenze ed è accusato dall’opposizione all’estero di aver ordinato esecuzioni di migliaia di nemici del sistema clericale. Nel 2014, su nomina di Sadeq Larijani, ha ricoperto per un biennio la funzione di Procuratore generale.
Il passato di Qalibaf è tutto interno al partito combattente: come tanti giovani di quella che è stata definita la generazione del fronte ha servito la patria nella guerra con l’Iraq, fra i 19 e i 22 anni è stato nominato comandante di truppe per poi salire al vertice dei Guardiani della Rivoluzione. Nella carriera è diventato anche capo della polizia, ma durante le proteste studentesche del 2003 ha cercato di aggirare la repressione con la mediazione. Più che un duro sembra un uomo d’apparato che mette a disposizione le capacità per la causa. Fra i vari incarichi ricoperti da Qalibaf c’è quello di amministratore delegato di Khatam al-Anbiya, azienda tuttofare in mano all’Iran Guardian  Revolutionary Corps, che s’occupa d’ingegneristica e progetti industriali. Il gruppo è noto anche col nomignolo di Ghorb e raccoglie centinaia di compagnìe impegnate in vari campi: dall’edilizia all’energia, passando per ogni sorta di servizi strutturali (il marchio Sepasad, ad esempio, sta lavorando a una nuova linea metropolitana nella capitale). Negli anni scorsi uno dei rami dell’azienda è stato accusato di compiere ricerche per l’applicazione militare del nucleare. Insomma è coi suoi uomini fidati che la componente politica dei Pasdaran controlla economia e amministrazione, attuando finora il compromesso col clero.
La domanda che l’elettorato si pone è se il connubio durerà e se perpetuerà questo sistema, rotto il quale la nazione che in Medio Oriente e altrove ha svariati nemici non rischierà scenari conflittuali. Per le vie di Teheran, sempre trafficate e invase da una moltitudine di giovani, può accadere d’incontrare sessantenni e cinquantenni, che con menomazioni più o meno gravi, si portano addosso i segni del distruttivo conflitto voluto da Saddam, compiacenti gli Stati Uniti che volevano punire l’onta dell’occupazione della propria ambasciata a Teheran da parte degli studenti basij. Otto anni di guerra feroce che costò agli iraniani oltre un milione di vittime, i cui volti sono presenti in gigantografie sparse per le città. Quei martiri hanno cementato il senso d’appartenenza alla rivoluzione khomeinista e milioni di giovani sono diventati il braccio armato del Ruhollah, dentro e fuori il Paese. E’ un pezzo di storia tuttora presente nell’immaginario e in certi discorsi, sebbene la tendenza sia guardare avanti e creare l’Iran del Terzo millennio, rivolto a mercato, servizi, turismo, sport, cultura, e perché no? allo svago. Eppure qualche voce immagina che se dovesse venir meno l’accomodamento fra ayatollah e pasdaran potrebbero prospettarsi scenari draconiani con blitz o colpi di mano da parte di chi maneggia i kalashnikov, che non sono i turbanti.


Ma al di là di congetture e paure, l’arma più presente nel confronto-scontro fra i candidati è l’economia. L’attacco a Rohani ruota attorno a questo sentire della gente: al 12% di disoccupazione, che sale e di molto fra i giovani e l’elettorato quarantenne che dovrebbe riconfermargli il sostegno. L’inflazione negli ultimi tempi è scesa dal 40% al 7-8% ma i prezzi salgono, non solo per i turisti che iniziano ad affollare le città d’arte anche perché altre piazze mediorientali, Turchia compresa, sono considerate insicure da vacanzieri e tour operator. I costi aumentano per gli stessi abitanti con l’eccezione di voci perennemente stabili nel paniere dei prezzi: pane e carburanti, un’enclave minima per una nazione orgogliosa dei suoi fasti imperiali e desiderosa di supremazia regionale. Si lamenta anche la casta dei bazari che, numerosa com’è, risulta sempre determinante nelle scadenze elettorali. Parla di stagnazione, chiusura di esercizi. Mugugna per il blocco delle transazioni bancarie che affligge soprattutto l’import-export, grandi aziende comprese, anche quelle statali e legate alle bonyad controllate dai blocchi politici più forti, ancora una volta Guardiani della Rivoluzione e clero. Mentre il lavoro strutturale e duro, ad esempio l’estrattivo che ha in parecchie province realtà concrete, mostra come rovescio della medaglia contraddizioni e pericoli. Ieri nel Golestan provincia del nord-est, s’è verificata un’esplosione in una miniera di carbone: due vittime e oltre venti intossicati dal grisu. Il capo del Centro d’emergenza ammette la difficoltà di raggiungere gli ottanta, e forse più, minatori intrappolati. E’ prevedibile che i candidati alla presidenza s’accusino anche di questo. 
(2 - continua)



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