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martedì 7 febbraio 2017

Israele, l’illegalità e il sangue

La guerra per la terra i sionisti d’Israele l’avevano iniziata prima della grande ondata migratoria successiva al 1945. Una guerra strisciante contro lo stesso Protettorato britannico, che pure li favoriva nella strategia di creare uno Stato ebraico. Le azioni paramilitari dell’Irgun, che già alla fine degli anni Trenta seminavano morte e terrore fra i palestinesi, poi della banda Stern, colpivano anche i militari britannici, rei di controllare l’area e regolamentarne l’immigrazione. L’ampia storiografia che ha trattato la questione, e alla quale rimandiamo, non si esime dal constatare come l’occupazione del territorio di Palestina e la privazione del medesimo subìta dagli abitanti che portano quel nome sia stata una costante attuata da tutto l’establishment politico ebraico: l’antico sionismo socialista dei kibbutz, e quello rivisitato in chiave di realismo politico da ogni governo, laburista o del Likud. Ai conflitti aperti, combattuti e vinti dall’esercito d’Israele ben foraggiato da potenze mondiali, si sono aggiunte le continue violazioni e le crescenti occupazioni dello spazio vitale che gli accordi internazionali avevano ratificato con gli stati arabi sostenitori del diritto alla patria dei palestinesi: nel 1948, 1956, 1967, 1973. Un copione reiterato a cadenza periodica con tanto di: disattesa dei patti, crisi, guerra-lampo, occupazione militare, estensione delle zone e della presenza israeliana, le cui avanguardie sono soldati e coloni.
Così il popolo che ha voluto una patria nell’antica terra degli avi, abitata anche da altre genti, invocandola come un’irrinunciabile facoltà, accetta che il suo Stato deprivi i palestinesi degli stessi diritti: al suolo, alla vita, al futuro. Lo fa con lo stillicidio degli insediamenti coloniali, considerati illegali da organismi sopra le parti:  il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la Corte dell’Aja, quella Internazionale di Giustizia, risoluzioni snobbate dai vertici d’Israele e considerate carta straccia. Fra le aggressioni armate - che dalla guerra civile libanese si ripetono, sostenute dall’alibi della difesa e della prevenzione dello status quo, che per Tel Aviv significa conservazione di sopraffazioni crescenti - e l’introduzione nell’altrui area, anch’essa dotata di divisa con kippà e Uzi a tracolla, quest’ultima risulta la più subdola. Ma non è slegata all’altra, che sempre la sostiene, con ogni arma. Si tratta di due percorsi che mirano allo stesso fine: la cancellazione della presenza palestinese. Dalla storia, come testimonia il revisionismo interno; dalle carte geografiche che a malapena citano la Cisgiordania, che non è nazione autodeterminata perché non gode del diritto di governare il suo popolo, a cominciare dal principio di riunificarne la diaspora. Di fatto il bantustan dei Territori Occupati e la prigione di Gaza, sono due abbandoni dello stato di diritto che la Comunità internazionale, volente o nolente, avalla da decenni.

Il disegno che utilizza il cavallo di Troia delle colonie per snaturare l’essenza geopolitica di quegli stessi territori offerti, quasi fossero un’elemosina, con agli Accordi di Oslo, conserva l’obiettivo, neppure tanto celato, di recuperare con l’abuso ciò che veniva concesso con la sottoscrizione di patti. Il colonialismo d’Israele mira alla metamorfosi endogena degli spazi ancora in mano ai palestinesi, li assedia dall’interno, li circonda con le proprie costruzioni circolari che hanno la medesima funzione soffocatrice dell’edera. Come l’edera, rampicante tenace, si mostra compatibile con la natura, Israele introduce nuclei familiari che reclamano la volontà di esistere sull’humus ricordato dai testi sacri come ‘terra dei padri’. Lettura unilaterale, ovviamente, con logiche di settarismo confessionale non diverso da altri fondamentalismi. Il problema s’accresce quando dell’illegalità ottusa, che non vuole sentire ragioni, soprattutto quelle d’altri, se ne appropria l’istituzione massima: il Parlamento. Che sì, in queste ore s’è diviso fra una maggioranza favorevole al sopruso e una consistente minoranza contraria, ma che nel tempo e da tempo sta supportando la tattica dello strangolamento di qualsivoglia entità istituzionale palestinese. I fatti parlano più di mille firme che li disattendono. La legalizzazione dell’illegalità diventa per Israele simile alla sedicente difesa con cui ha costruito la sua storia recente. Una storia tristemente bagnata di sangue. 

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