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lunedì 2 gennaio 2017

Turchia, strage di Capodanno e prezzo dell’avventura

Cronaca e storia insanguinate - Potrebbe essere un asiatico - afghano, uiguro, uzbeko - l’attentatore del Reina di Istanbul che ha massacrato 39 avventori, ventotto stranieri e undici turchi, nella notte di Capodanno. Un lupo solitario del jihadismo, camuffato non da Santa Claus ma con una cuffia bianca col pon-pon (ora il dubbio è stato chiarito), oppure il killer d’un commando che aveva un paio di complici. Un’ipotesi quest’ultima ventilata ma impalpabile, visto che di possibili compari vengono riferite solo sensazioni degli scioccati ospiti del night. Inquietante resta il facile dileguarsi dello sparatore fra decine di testimoni, che non erano solo i festeggianti impauriti e frastornati, ma passanti e poliziotti in una zona centralissima e presidiatissima della Istanbul europea qual è il distretto di Ortaköy. Eppure è accaduto, ed è questo un elemento che preoccupa l’establishment politico, prigioniero di eventi che rischiano di travolgerlo. Il volto funereo mostrato dal ‘Capo del governo di maniera’ Yildırım in un intervento televisivo travalicava gli stessi reiterati lutti con cui la popolazione turca fa i conti ormai settimanalmente.  Diventa lo specchio dell’incancrenirsi d’una situazione che da un anno ha mutato l’essenza d’una nazione. Una parte, divenuta maggioritaria, della Turchia da quasi un quindicennio s’è offerta all’uomo che la guida e la vuole tutta per sé, tanto da aver escluso amici di tempi lontani come l’ex presidente Gül e l’ex fedelissimo Davutoğlu, già suo ministro degli Esteri, quindi premier, messi da parte o autoesclusi in una corsa al potere diventata una gara a ostacoli per lo stesso concorrente unico: l’Atatürk islamista. Che si ritrova assediato da amici o ex tali e da avversari con cui aveva collaborato e comunque dialogato. Una particolare qualità accompagna la sua vanagloria: essere pervicace e apertamente spregiudicato, una sorta di alpinista politico tutt’altro che dilettante che ama sperimentare e magari aprire vie impervie con tutti i rischi che comportano. Dei tre fronti che da mesi assillano Erdoğan e il Paese - la politica estera, i kurdi, l’apparato fethullaçi - l’uomo del destino dell’Anatolia è al tempo stesso gran cerimoniere e apprendista stregone.
Stato terrorizzato - E’ fin troppo chiaro che i moventi di tanto sangue sparso in terra turca da un anno e mezzo a questa parte (segnando dal giugno 2015 la conta dell’orrore) sono legati alle ultime sue mosse politiche. Il panorama internazionale, pallino del leader turco, ha rappresentato la palestra di un’infinità di tatticismi che gli hanno fatto avvicinare “primavere arabe” nelle sue componenti più varie: quella contestatrice delle piazze (Tahrir), l’istituzionale dei governi (Ennadha e Fratellanza), la strutturale islamica per la quale sperimentava un modello che trovasse un compromesso fra pragmatismo e tradizione della Sha’ria. Nell’uso e abuso di tale scenario, compreso fra il sostegno alla causa palestinese e le diverse alleanze nel ginepraio siriano, la spregiudicatezza presidenziale viene punita dal jihadismo. L’Isis, che insinua la matrice combattente per colpire e proliferare, cerca anche terreni dove il suo seme può germinare. La Turchia è meno prolifica delle aree siriane, irachene, afghane o pakistane, ma nel suo sogno di grandezza mostra un ventre molle, paradossalmente offerto dai troppi nemici che il doppiogiochismo erdoğaniano s’è procurato. E l’omertà degli anni scorsi verso i foreign fighters, divenuto sostegno pieno a suon di bombe contrabbandate (e scoperte dai cronisti di Cumhuriyet), s’è repentinamente trasformato in voltafaccia e adesione a un fronte opposto. In realtà anche le petromonarchie praticano un doppiogioco verso il Daesh, dicendo di opporvisi e sostenendo il wahhabismo ispiratore spirituale del jihad, ma attualmente sono la Turchia e il suo conducator a pagare il conto di sangue. Nella purulenta piaga siriana è in svolgimento anche un capitolo della questione kurda, e in contemporanea all’avvio degli attentati terroristi fra Ankara, Istanbul e Suruç-Gaziantep-Diyarbakır (tre città kurde) c’è stata una ripresa del conflitto aperto fra il combattentismo di quest’etnia e l’esercito turco. I cui militari hanno riattivato il doppio binario d’una terroristica repressione-oppressione rivolta alla popolazione del sud-est del Paese.  
Terrorismo di Stato - Dalla tarda estate 2015 per tutto l’autunno si sono contati centinaia di assassini di civili, Cizre martirizzata mostrava decine di cadaveri massacrati e finanche mutilati. Un assist per la componente dei Falchi della Libertà, dissidente verso lo stesso Pkk, impegnato in combattimenti diretti coi militari di Ankara. Rapidamente i colloqui con Öcalan sono diventati un ricordo lontanissimo e un capitolo chiuso. Ma la questione kurda resta. Erdoğan sa che non può risolverla incarcerando i kurdi incamminati sulla via di Demirtaş o inzuppando di sangue le vie del sud-est. Anche perché quel sangue da mesi si riversa addosso alla sua Turchia, dove Istanbul e Ankara inseguono un macabro derby di morte con 152 cadaveri contro 166. Eppure il cambio di passo sul versante siriano, che avvicinano il presidente turco a Russia e Iran sembra dettato solo dal realismo di aggiornare in senso favorevole la propria sponda di alleanze e dai suoi tatticismi interni e internazionali. A Putin Erdoğan chiede garanzie contro quel Rojava che il Daesh in rotta non sembra poter offrire a lungo. E se gli Stati Uniti continuano ad armare i combattenti delle Unità del popolo, lui lavora per un ritorno allo status quo ante (magari anche conservando il potere ad Asad), così da impedire evoluzioni favorevoli a quel progetto politico kurdo. Sull’impervio percorso intrapreso restano altri ex alleati, quei gülenisti con cui ha condiviso le infiltrazioni degli anni Novanta nel corpaccione dello Stato kemalista, più volte ripulito nei suoi apparati repressivi e della forza dai militari vecchio stile sostituiti da islamisti. Quanti seguaci dell’odiato imam della Pennsylvania continuano a operare in seno a polizia, forze armate, Intelligence dopo retate, arresti, epurazioni contate a migliaia dal mattino del 16 luglio scorso non è dato sapere. Potrebbero esser loro a sabotare o remare contro il sistema dell’Akp. Oppure inseguire il fantasma di questo nemico ha fatto dissanguare a tal punto quegli organismi che ormai paiono zombies, incapaci di reagire ad attentati, agguati, infiltrazioni in una nazione colpita, sofferente, stordita, e negli stessi vertici statali incapace a trovare soluzione a reiterati drammi. Da ieri è caccia aperta a un attentatore, la cui cattura potrebbe almeno offrire un pizzico di credibilità ai più insicuri apparati di sicurezza oggi in circolazione.


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