Due foto. In una c’è l’uomo posato, lo statista, secondo
altri il satrapo, parla di vittoria storica per la ripresa della sua Aleppo che
non gli era amica ben prima che ribelli e jihadisti ne facessero una frontiera
contro il suo potere. Lui è nel Palazzo di Damasco, protetto da guardie fidate,
una casta chiamata élite; da lì continua a difendere il ruolo di Presidente di
una Siria in dissoluzione. Non solo e tanto perché i giocolieri del Medio
Oriente vogliono disarcionarlo e complottano contro di lui. Ma perché un pezzo
di quel popolo che deve governare – quello islamico e sunnita – gli ha girato
le spalle e ne contesta i privilegi. Non è tutto così semplice e schematico nel
Paese che ha una ricchissima storia antica e una moderna, percorsa da eventi
ordinari prima che luttuosi. Però non è sul cammino e sulle cause di quella
che, definita guerra civile e diventata da tempo carneficina, si soffermano
queste righe. Vanno diritte a quel che c’è dietro le foto, una visione sfavorevole
al siriano senza Siria e senza futuro, rattristato nella prossima condizione di
profugo in patria o fuori.
Quest’uomo disperato piange per un’esistenza che non ha più o non
potrà più avere, seppure l’altro, il Presidente, fiducioso nella vittoria
finale gli promette di rilanciare la nazione più forte e bella di prima. Comunque l’uomo con la kefia è impaurito. Magari teme le vendette dei lealisti, che
potrebbero considerarlo un ribelle, un fiancheggiatore diretto o indiretto del
jihadismo che ha distrutto la Siria del tempo recente. Niente può essere come
prima in una nazione che conta 400.000 cadaveri, sette milioni di profughi, un
territorio diviso in quattro o più aree controllate da signori della guerra con
gli scarponi in terra, mentre sulle teste volano i controllori del cielo
dispensatori di morte. Siriani disperati, ad Aleppo e in ogni scenario di
guerra, sono rimasti intrappolati per mesi, per anni, ostaggi delle fazioni. Avevano
la sola colpa d’essere nati in quei luoghi non volerli abbandonare. Se i due
uomini mai dovessero guardarsi potrebbero parlare? E dirsi cosa? Cosa può
raccontare questo Presidente a un cittadino, che lui vuole suddito, per
motivare il disastro in corso e la rinascita d’una nazione?
Una
soluzione,
ventilata dai suoi nemici, è quella d’un suo farsi da parte, rinunciare a una
carica che non ha più senso se non per sé e i suoi fan, che non sono l’intero
popolo siriano. Milioni ormai sparsi in cento rivoli di dolore. Ma l’uomo
posato, e soprattutto i suoi protettori, escludono un simile passo, che
ovviamente può favorire i nemici. Così tutto è stato fermato tranne la morte.
Quella di chi combatte sui vari fronti, l’odiato ribelle multiforme, e quello
dei fedeli al Capo non più di Stato bensì di clan. Soprattutto non s’è fermata
la fine di chi ha l’unica colpa di non parteggiare per nessuno. Gente odiata
ancor di più, perché quei volti smunti di bambini frastornati, donne straniate,
vecchi marciti nella polvere, rappresentano un peso per ogni combattente. Sono
la zavorra con cui i prigionieri di ideologie e teologie non vogliono fare i
conti; secondo propri fanatismi, a ogni
costo, non vogliono chiudere anzitempo il conflitto. Non vogliono perché sanno
che la soluzione finale non gli darà scampo, perciò tormentano gli inermi
dicendo di difenderli. Se in Siria muore ogni pietà, non siamo fra coloro che
lo giustificano e assolvono combattenti e mandanti. Su questi pesa il giudizio
della Storia che scrive il suo epicedio solo per i civili.
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