Il presidente d’Egitto Abdel Sisi si fa buonista
e lancia una campagna del perdono per 82 reclusi. Assume toni magnanimi verso
qualche nome noto, come lo studioso islamico El-Behery, che era stato
bacchettato dagli esperti dell’Università Al-Ahzar per le sue idee su riforme
dell’Islam definite da costoro un “insulto
alla religione”. Per questo aveva subìto la sospensione del programma
televisivo ed era stato condannato dalla Corte Suprema a cinque anni di reclusione.
La pena veniva poi ridotta a un anno nel dicembre 2015. A poco più d’un mese
dalla scarcerazione giunge il “beau geste” del generale che nella veste di
padre buono e comprensivo intercede con la grazia presidenziale, per lui e
anche per qualche attivista che aveva sfidato la “legge di protesta” che vieta
assembramenti superiori a tre persone per strada. Ovviamente raduni per ragioni
politiche, altrimenti le caotiche vie di Cairo, Alessandria e di tante medie
città iper popolate e super trafficate
finirebbero coi loro cittadini e ambulanti tutte sotto accusa. Ad accompagnare
fuori di cella i detenuti c’è l’articolo 155 della Costituzione che consente al
primo cittadino la facoltà d’indulgere verso i condannati.
Tutto ciò viene rispolverato da Sisi in un
momento in cui i rapporti internazionali dell’Egitto vivono il peso dei
sospetti sulle implicazioni del regime nei confronti di tre anni intensissimi
di repressione. L’oppressione e l’inosservanza di diritti civili hanno avuto
eco non secondarie in casi clamorosi. Uno a noi notissimo è l’omicidio del
ricercatore Giulio Regeni, su cui pesa la palese omertà degli apparati di Stato
oltreché le dirette responsabilità di strettissimi collaboratori del presidente
come il ministro dell’Interno Ghaffar. Assassini e insabbiatori sono tuttora
difesi dai governanti del Cairo che hanno prodotto agli omologhi di Roma decine
di confuse illazioni dal palese sapore del depistaggio, ma nessun indizio concreto. Irritata e disillusa la famiglia
Regeni chiede a entrambi i poteri una verità che non si vuol produrre, così da
tenere lontano qualsiasi orizzonte di giustizia. Tale panorama non ha impedito
all’Egitto di continuare a ricevere fondi d’investimento: la comunità
internazionale, che pur pratica embarghi economici per ragioni d’interesse
politico, resta in ogni latitudine quasi sempre sorda a motivazioni legate a diritti
umani e crimini di guerra.
Eppure ultimamente il Cairo valuta più
attentamente i rapporti di quella diplomazia dell’apparenza, puntando sulla
sostanza di metodi e obiettivi repressivi. Forse, a meno che non scoppino nuove
ondate di protesta e sebbene un dubbio resti data la rozzezza di certi apparati
dei mukhabarat, ci si orienta a
colpire non più in maniera massiccia e generalizzata l’opposizione politica.
Per presente e futuro si scelgono i soggetti su cui far pesare il pugno di
ferro. Nel comitato dei prigionieri, che nelle scorse settimane ha discusso
tramite un organo semigovernativo (Consiglio Nazionale per i diritti), compaiono
un membro del Free Egyptians Party, El-Ghazaly, uno scrittore, El-Houfy, un ex
parlamentare, El-Kholy, ma nessun esponente della Fratellanza Musulmana. Dei
molti giornalisti incarcerati viene proposto il perdono a un fotografo, Ali
Salah, detenuto dal 2013 e sentenziato con tre anni di reclusione. Insomma la
mascherata del buon Sisi coinvolge oppositori morbidi e quasi tutti alla
scadenza della pena. Una bella operazione di propaganda che fa bene ai suoi
rapporti col mondo. Mentre decine di migliaia restano seppelliti a Tora. E la
verità su Regeni è più nascosta di qualsiasi tomba faraonica.
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