Arriva
un giullare vestito alla Rigoletto e grida: “E’ morto Accattone!!! Noi
capiamo. Non è Verdi ma, come nel Novecento
di Bertolucci, certe morti lasciano il segno. Ribadiscono quel che era finito
da parecchio. Non un’età splendente perché tale non era, ma dell’epoca genuina
cui quel sottoproletariato apparteneva. E’ questo l’oro che si portava addosso, come
nella scena del film che l’ha reso celebre, mentre risponde con la naturale
strafottenza ai pischelli assiepati sui muraglioni. Duetta con gli scherni prima
del tuffo "ner bionno" Tevere, parapetto di ponte Sant’Angelo, vicino al Ciriola.
Dice: “Daje va, damo soddisfazzione ar
popolo”, ma innanzitutto quelle canaglie struggenti alla Vittorio soddisfacevano
se stessi e i propri stravizi. Robetta semplice: le carte, il far niente da
vitelloni meno raffinati dei nullafacenti borghesi di Riviera cantati da
Fellini, che quei marginali non capiva, tanto che non produsse questo film
considerato uno dei Cento della Storia del cinema (realizzando, comunque, altri
capolavori). Chiacchiere, sfottò, balle per far trascorrere le ore in uno
sgangherato caffè del Pigneto (che su quest’icona ha creato successive
fortune). E rischiose scommesse per quattro soldi, furti di salami e la
vergogna d’essere, al più, papponi.
L’infamia,
maschilista e capitalista, lo sfruttamento dell’uomo sulla donna, che - ahinoi -
prosegue con forme medesime e diverse, era indubbiamente uno dei peccati mortali
di questi Accattoni. Ciò nonostante la poesia con cui Pasolini ne narra le
vicende, la semplicità di anime perse ma non perverse, la miseria da cui
scaturivano le scelte immonde del furto dei beni e di quello dell’esistenza di
ragazze che si diceva d’amare, ne segnano un lato oscuro che pure riusciva a
sognare. Non tanto, e non solo, l’automobilina esibita in borgata a status symbol
quasi fosse una Ferrari, non 'l’oro dei Faraoni' che si metteva a rischio con una
balorda sfida, bensì quell’essere differenti
da un sistema che dà al lavoro e al denaro precisi canoni d’integrazione e
misura d’una identità. Quegli Accattoni erano altro. Non inseguivano solo
l’avere come qualsiasi ladruncolo o rapinatore, cercavano d’essere se stessi.
Spesso restando nullità, perché senza valori l’individuo si sente vuoto,
loro rifiutavano nichilisticamente quell’esclusione già sentenziata dalla società. Il lavoro che onora molti, non gli apparteneva, non riuscivano a sostenerlo: “Ottanta quintali, e che in Italia esiste
tutto sto’ fero?” diceva l'Accattone pasoliniano dopo l'unica sua giornata di vera fatica. Avevano il fisico debole, capace d’un gesto unico: il
tuffo, non la nuotata.
Eppure l’immersione nell’onirico, angosciosa, premonitrice arrivava col sudore, ma
senza patemi. Nel sogno il vile Accattone, l'escluso pure dal suo funerale,
chiede pietà: almeno una fossa al sole. E gli viene concessa. L’Angel di dio del V canto del Purgatorio con
cui Pasolini apre la narrazione di questi cuori dannati, l’angelo forse li priva del Cielo ma ha un singulto di clemenza e gli concede un raggio di luce. Probabilmente
non eterna perché mantiene le distanze da chi si prende gioco di tutto in una
vita terrena indolentemente trascinata e in una eternità impossibile. “Come lo voi er trasporto funebre?” “Co’
tutti l’amici dietro che ridono, er primo che piagne paga da beve a tutti”. Accattone avrebbe detto così pure a San Pietro se mai fosse stato interrogato sul trapasso. Cercando
di sorridere, amaramente a un destino di rifiuto che il mondo ha verso il
proprio essere e un suo eguale comportamento sottolineato con indifferenza. Un
riso amaro alla vita marchiata da stenti e marginalità, senza speranze e
ideali, condotta alla giornata, fatalisticamente e comunque priva di angosce.
Un sorriso a mezza bocca come l’esistenza vissuta e fatta vivere, in ogni caso
sincera e alleggerita dalla morte. Sta bene mo’ Accattone, ha chiuso il suo
tempo e il suo tempo da molto è terminato. Accattoni così non ne nascono più.
In memoria di Franco Citti
In memoria di Franco Citti
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