Mattinata
d’occupazione a Istanbul al quartier generale della Koza
İpek Holding’s media (quotidiani Bugün
e Millet, più Bugün Tv e Kanaltürk). La
polizia è giunta in forze alle quattro del mattino, s’è introdotta nell’edificio
che ospita le redazioni, ha oscurato i canali televisivi (“cari telespettatori non sorprendetevi se fra poco vedrete la polizia
nei nostri studi” annunciava il conduttore), impedito l’uscita dei
giornali. Applicava un’ordinanza del tribunale che pone la struttura sotto la
“tutela” di Turkuvaz Media Group, un editore filogovernativo che diventa
fiduciario, e di fatto censore, del gruppo concorrente accusato di sostegno al
terrorismo. I cronisti ancora presenti nelle redazioni sono diventati ostaggio
degli agenti in borghese, mentre a quelli accorsi in sostegno veniva impedito
l’accesso nel luogo di lavoro. Quando la tensione è salita sono stati bersagliati
con gas lacrimogeni e urticanti e cannonate d’acqua assieme a decine di
cittadini radunati per protesta sotto la sede. Mahmut Tanal, un avvocato del partito
repubblicano, ha provato a mediare col capo dell’antisommossa presente in
strada, non c’è stato nulla da fare. Agli scontri, peraltro sedati dopo non
molto, sono seguiti fermi e arresti.
Il
conflitto con l’apparato mediatico vicino al movimento gülenista Hizmet è in atto da tempo, ma
non è l’unico perché nel mirino di Erdoğan c’è ormai ogni voce d’informazione
che si smarca dal coro d’appoggio e propaganda al suo sistema di potere. Il
recente rilascio del direttore del quotidiano Zaman, Bulent Kenes, è solo un
diversivo, visto che l’attacco alla libertà di stampa è totale e senza
precedenti. Ovvero riporta alla Turchia piegata dalla tipologia di dittatura
militare e fascistoide del buio trentennio Sessanta-Ottanta. L’hanno
sottolineato alcuni deputati del partito repubblicano che denunciavano la
totale illegalità dell’azione poliziesca anche nei loro confronti, visto che
gli è stato comunque impedito l’accesso all’edificio della holding dove s’erano
recati per osservare quanto stesse accadendo. “Questo è stato di polizia” ha tagliato corto il parlamentare del
Chp Barış
Yarkardaş. Mancano quattro giorni all’apertura delle urne e il partito
di maggioranza (Akp), che ha evitato volutamente qualsiasi tentativo d’accordo
con altre formazioni, sceglie di giocarsi il tutto per tutto. Punta a
recuperare terreno, per quanto i sondaggi non gli siano favorevoli. Dicono che rischia
di subire un ulteriore calo di consensi dopo la flessione dello scorso giugno
che l’ha privato di quegli ottanta deputati (ottenuti dall’Hdp, che riunisce
filo kurdi e sinistra) con cui ambiva di trasformare la nazione in Repubblica
presidenziale.
Il piano
erdoğaniano sembra sfuggire di mano al presidente, lanciato in un’escalation
di autoreferenzialità autoritaria. Ai suoi acuti repressivi o, come ritengono
vari commentatori, in sintonia con essi, s’aggiungono le trame oscure che
diffondono terrore. La repressione, di cui la quotidianità è costellata con
persecuzioni e divieti, trova nella libertà d’espressione un bersaglio macroscopico,
ma cerca vittime egualmente in oppositori e avversari politici: dai kurdi,
guerriglieri e pacifisti alla Demirtaş, ai gruppi marxisti armati e non, agli
ex alleati seguaci dell’autoesiliato imam Gülen. L’abisso della paura
introdotta dalle bombe sposta lo scontro sul terreno psicologico, lo
trasferisce su un livello nel quale solo la coscienza socio-politica unita alla
forza d’animo di attivisti e militanti, votati peraltro a diventare bersagli,
può tenere. Uno scontro impari, perché punta a creare defezioni fra i cittadini
che reclamano democrazia e un’azione politica normale, basata sul dibattito, la
dialettica, la critica. Nel delirio d’onnipotenza che caratterizza la sua
azione Erdoğan cerca d’impedirlo. A ogni costo. Polarizza e spacca il Paese,
non combatte il terrore, cavalca i timori, chiede una delega per andare avanti
da solo contro tutti.
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