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sabato 3 ottobre 2015

Danni collaterali afghani: bersaglio sanitario

Continuano a chiamarli “danni collaterali” e continuano a farne a centinaia e migliaia. Ma quei danni hanno nomi come Mohammed, Ali, Noor, Pari. Uomini e donne, ragazzi e ragazze. Bambini. Dai settant’anni (chi li supera fra gli afghani rappresenta un’eccezione) a chi di anni ne ha appena uno o pochi mesi. Muoiono sotto le bombe, ma per i generali del North Atlantic Treaty Organisation, i liberatori, i poliziotti del mondo “l’inciampo” come quello che fa bombardare dai propri caccia un ospedale di Medecins sans frontières a Kunduz, nell’area settentrionale d’un Paese soggetto da quattordici anni alle proprie attenzioni, è un’inezia. Cosa sono nove morti, fra i civili, anzi fra civili già feriti e lì ricoverati, di fronte a una missione di sicurezza geopolitica? I media devono tralasciare certe notizie, quelli amici o embedded non le considerano importanti. Infatti negli ultimi tre anni, seguendo la linea del presidente Obama hanno parlato esclusivamente di exit strategy e di riduzione del numero dei militari. Non si cita affatto alcuna riduzione di simili “danni collaterali”, cioè dell’uccisione di gente comune, che seguita a sopravvivere e morire sotto le bombe delle fazioni in lotta. Come e più di trent’anni or sono.
Le tragiche cronache locali da giorni riferiscono della prova di forza talebana sull’importante snodo viario del nord Afghanistan, delle difficoltà di risposta dell’esercito di Ghani, dell’indispensabile intervento di terra e aria dei militari Nato per riprendersi qualche centinaio di metri quadrati in centro città e non dare la sensazione di diffusa impotenza. Della propaganda forzosa con cui Tolo tv e altre fonti divulgavano note non veritiere sul “completo controllo della città da parte dell’Afghan National Army”, mentre i talebani tengono tuttora sotto tiro zone periferiche di Kunduz, due dei tre accessi da cui erano entrati in città lunedì scorso e impediscono l’utilizzo dell’aeroporto. Si son viste anche immagini di guerriglieri alla guida di ambulanze, probabilmente per il trasporto di propri feriti. Perciò la mezz’ora di ferro, fuoco ed esplosivo - sì, trenta minuti trenta - con cui la Nato ha colpito e devastato l’ospedale in questione potrebbe rappresentare una punizione verso quei medici che ovviamente soccorrono ogni vittima di conflitti a fuoco, talebani compresi. E’ già successo a MSF, com’è accaduto a Emergency e Gino Strada ha pubblicamente rivendicato quella pratica.
Cosa scontatissima per un dottore, ma per questo genere di conflitti non conseguenziale. E la cosa fa onore a Strada, al suo staff, a quello dei Medici senza Frontiere o di altre strutture sanitarie che strappano alla morte feriti di guerra. Ripetiamo: si tratta di un’ipotesi, che andrebbe indagata. Però nessuno dei generali dell’occupazione che ora si chiama Resolute Support ammetterà mai un simile piano. E nessuno potrà investigare, soprattutto le istituzioni afghane (governo e magistratura) tenute a guinzaglio dai protettori d’Oltreoceano responsabili di questa perpetua, oppressiva, presenza. Noi che ne scriviamo abbiamo – un po’ come il Pasolini sullo stragismo italiano - il sospetto; ci mancano le prove. Seppure prove fondate di cinismo e disumanità - altro che missioni di pace - sono state le operazioni Enduring freedom e Isaf  che di vittime, solo civili, ne hanno prodotte a decine di migliaia. E si preparano a riaprire il buco nero della morte dal cielo, visto che il controllo del territorio che la Nato sta facendo coi suoi uomini prevede esclusivamente avieri o i piloti di terra, orientatori di droni. E’ l’ennesimo sporco intervento già corso, cui partecipano anche reparti italiani, ma non se ne parla.

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