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venerdì 26 giugno 2015

Il mirino jihadista che ci tiene sotto tiro

La guerra dell’Isis prosegue, lontana da Kobanê e Raqqa. Va nel cuore d’Europa, come durante l’assalto parigino alla redazione di Charlie Hebdo dello scorso gennaio. Coinvolge i luoghi del divertificio occidentale: le spiagge maghrebine, ma potrebbero essere i lidi di qualsiasi nazione. L’odierna cronaca parla di nuovi attacchi: un impianto di gas francese nella val d’Isère, a trenta chilometri da Lione, la spiaggia tunisina di Sousse. Nella prima gli attentatori che, secondo gli inquirenti puntavano a un’enorme strage facendo esplodere la struttura, disegno fortunatamente fallito, lasciano il macabro marchio del proprio terrore: una testa umana mozzata e le bandiere nere dello Stato Islamico. Nei resort tunisini il medesimo jihad pratica un tiro al bersaglio sui vacanzieri, sterminandone 27, prevalentemente inglesi e francesi. E’ l’ingombrante e allucinante guerra che l’Europa non vorrebbe combattere e che la trasforma in target fisso, nelle sue città, fra le sue cose, coi suoi cittadini. Ovunque si spostino. E’ la trasmigrazione del terrore che l’attuale brand denominato Isis ha esposto  nella trucida propaganda e ora serve direttamente, come, e forse peggio, aveva fatto un’altra fase del Jihad, gestito dal Movimento islamico armato negli anni ’90, rivolto sempre ai francesi, fuori e dentro la Francia.
L’infinita ‘guerra santa’ - che in certe fasi sembra esaurirsi poi rispunta tornando sui suoi passi, rielaborando vecchie formule, mutuandole oppure mutandole - rappresenta un fantasma che non scompare. In un solo Paese da quant’anni tale progetto non è mai tramontato: l’Afghanistan. Altrove, in Medio Oriente, Africa o Europa, l’Occidente pensa di contenerlo o cancellarlo, ma non attuando soluzioni adeguate e contrastando quelle autoctone lo alimenta. Parliamo di nutrizioni indirette, non di quelle fomentate con precisi piani strategici. Sebbene l’irrisolta questione palestinese e le persecuzioni dei disegni politici dell’Islam militante non armato offrano altri punti d’osservazione, non è un segreto: la madre di ogni moderno jihad che è quella afghana avviò il suo corso grazie ai cospicui finanziamenti occidentali e all’uso anti sovietico della conseguente guerriglia. Questa prassi è proseguita, dai mujaheddin ai qaedisti, fino ai miliziani delle guerre siriane, libiche e di altre piazze, dal Maghreb al Mashreq. Però oltre lo scacchiere dei giochi egemonici delle potenze mondiali, oltre l’intreccio delle alleanze di cui i Grandi del mondo possono godere, esistono ulteriori realtà che si confrontano e scontrano.

Nell’Islam conosciuto di sponda sunnita e sciita, e in quello sempre più presente nelle nostre società grazie alle inevitabili migrazioni. Dove un sistema invecchiato non solo nelle strutture e nelle popolazioni, ma negli stessi ideali di vita non integra più nessuno. Hanno voglia politici, sociologi, filosofi, predicatori a invocare inserimenti, il falso melting pot della bella democrazia sembra non funzionare più, se mai ha funzionato. Anche perché contorni e contenuti mostrano crescenti ingiustizie e mostruose corruzioni. Riflettere può servire a intravvedere quali valori rilanciare, su quali basi trasformare un sistema sociale che nel continente chiamato Europa sempre più è e dovrà essere multietnico, multireligioso, multiforme. Affinché i progetti fondamentisti musulmani, o d’altro genere (si pensi alle chiusure razziste, xenofobe, parafasciste diffuse fra i confini del continente antico) non prendano il sopravvento. Mentre l’orizzonte degli ideologi che preparano lo scontro, palese o celato, cresce in maniera esponenziale fra le bandiere nere e quelle che non attraggono più.

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